domenica 31 maggio 2009

Non ho la patente A, eppure ieri avevo una moto da cross sotto le natiche. E così me ne sono andato per i sentieri africani di Sombuleiro, con un bel senso di libertà, il sole in faccia, all'avventura. E' stato semplicemente cool e simpatico anche, soprattutto quando mi è caduta la catena e si sono fermate cinque o sei persone ad aiutarmi.

venerdì 29 maggio 2009

Esistono uomini grandi come granelli di polvere, uomini grandi come ciottoli o fiori, esili e fragili, duri e immobili. Esistono poi uomini della dimensione degli uomini, grandi come uomini capaci di vite umane. Uomini grandi come pianeti, come satelliti che ruotano, uomini enormi come il sole, giganti ancora più enormi, brillanti, galassie. Uomini in cui sono nascoste le stelle.

Tutti comunque, ruotano più o meno inconsapevoli intorno all'unico centro dello spazio.
Non ci si può liberare dall'abitudine, buttandola fuori dalla finestra. Bisogna farle scendere le scale, un gradino alla volta.

- Giorgio Gaber -

mercoledì 27 maggio 2009

Ci si sveglia, un mattino, in Africa. Il sole scalda la terra fredda, come in primavera dalle nostre parti. Poco a poco giunge l'inverno. Quando muore qualcuno, le bare hanno la priorità ed i carpentieri mollano il lavoro per costruire la caixa. Mi dicono di aver visto, un giorno, una piccola bara bianca da bambino trasportata di traverso in bilico su due biciclette. 
Ci si sveglia in Africa, dopotutto.

domenica 24 maggio 2009

Le mirabili scoperte di cuore del dottor Bazzoli (Parte 3 di 3)

Si stupirono gli studenti, nel vederlo arrivare in ritardo e trafelato, alcuni minuti dopo i ritardatari. Ma non disse nulla, si sedette e per un attimo ebbe intenzione di riprendere il filo delle proprie lezioni. Non era dell’umore per le interrogazioni o forse non era dell’umore per insegnare la filosofia. Nella borsa, come incandescente, vibrava quella raccolta di poesie, la sfilò dall’interno senza dire nulla e lesse. Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Si fermò, sorrise. Non era ancora sera dopotutto, non era il caso di continuare. Lo prese però una gioia strana, guardò verso gli studenti attoniti che scomposti si giravano in avanti ed indietro verso i compagni, gettavano a lui una occhiata fugace nel bisbigliato silenzio che era calato a seguito di quell’azione senza significato apparente, temendo fosse un tranello, un altro tentativo di inserire un segno positivo o negativo vicino al nome di qualcuno. Il dottor Bazzoli, vedendoli così impacciati, scoppiò in una risata sonora, e la sua voce greve risuonò e rimbalzò tra le pareti della piccola aula al secondo piano dell’edificio. Scusate, disse, oggi è un giorno differente, ogni minuto scorre come nuovo, vive di una nuova luce. Mi rivolgo a voi come non avrei pensato. Ma adesso, arrivederci. E così detto stette in silenzio. Nel parapiglia generale, mentre alcuni ragazzi ridacchiavano, si picchiettavano le meningi con il dito indice, altri ancora stavano immobili ed i loro volti disegnavano un enorme punto interrogativo, che non avrebbe avuto risposta. Il dottore, così amava farsi chiamare, si alzò di scatto, come spinto da una molla posizionata sotto le natiche e a grandi falcate uscì dall’aula, poi dalla scuola e vagò, vagò per le vie euforico, emozionato, osservando gli uomini e le donne in strada, chiedendosi cosa diavolo gli stesse capitando, ma senza paura, come se il mondo avesse deciso naturalmente di svelargli il nuovo ed egli lo accogliesse senza riserve o dubbi. Stette per ore in un parco cittadino, sorridendo e guardando fiori ed alberi, come un bambino osservava i bambini, poi seduto su una panchina apriva la borsa di pelle scura, ne estraeva di tanto in tanto il libro di poesie, leggendo qualche verso. Dentro il suo cuore si apriva a mondi nuovi, sentiva, percepiva la fine del suo eterno inverno interiore e l’inizio di una fase nuova, senza possibilità di errore. Poteva percepire intensità emotive tali che il temette che il suo fragile petto avvizzito potesse spezzarsi nella pienezza di quella realtà; rischiò di perire di crepacuore così come un assetato nel deserto rischia di morire non di sete, ma d’acqua, nel berne in grande quantità dopo una lunga astinenza. In questo stato il dottore giunse al tramonto, ancora nel parco, e quando si sentì davvero sommerso da ciò che vedeva chiuse repentinamente gli occhi ed allora furono i suoni che lo invasero, ogni rumore anche impercettibile tuonava nelle sue orecchie come il rombo di un aereo, lo spezzarsi di un ramo, il rimbalzare di un pallone. Provò a premere le elici con gli indici, per tapparsi le orecchie, ma già i profumi lo assalivano, e li riconosceva tutti, tutti insieme eppure uno ad uno. Conosceva i loro nomi. Al fine si arrese, adagiò le mani sulle cosce e riaprì gli occhi nell’ultimo chiarore del giorno, mentre da dietro al cielo comparivano le stelle e il bagliore della luna non ancora sorta. La temperatura scese un poco, ma lui ebbe caldo, si tolse la giacca e rimase nel biancore della camicia indossata, sotto il biancore della notte, fino a quando verso le quattro del mattino, seduto ancora su quella panchina, iniziò a piovere. Bevve ogni istante di quella notte come un bicchiere di vino perfetto, gustandone le sfumature e l’armonia d’insieme, e con la pioggia iniziò, anch’egli a piangere a dirotto, come se tutta le immagini che si erano stratificate in quella giornata, dalla letizia mattutina al maremoto emotivo della sera, si rimescolassero, sottosopra, nel baule ricolmo di tesori dei suoi ricordi. Con le ultime forze che gli rimanevano, prima di essere sopraffatto, riaprì la raccolta di poesie ormai fradice e lesse, Ed è subito sera, queste parole solamente. Si sentì solo, si sentì sul cuore della terra e si sentì trafitto dal primo raggio di sole del mattino, ed anche se, diamine, era l’alba, in quel momento preciso tramontarono le sue facoltà mentali, il cuore prese il sopravvento e piangendo commosso si liberò da tutte le paure, da tutte le astrazioni, da tutti i limiti della mente umana. Si alzò in piedi, ma non era più lo stesso: se ne andava, mezzo storto, con le gambe un poco piegate, facendo attenzione ad ogni passo, storcendo i piedi verso l‘esterno in una innaturale rotazione della caviglia. Aveva le braccia proiettate in avanti ed in quella chiara mattinata di primavera le mani si erano trasformate in scandagli, simili alle antenne delle formiche. Sul volto del dottor Bazzoli albeggiava un sorriso a ventotto denti, quelli del giudizio soltanto mancavano all’appello: li aveva definitivamente persi durante la notte.

sabato 23 maggio 2009

Le case dei poveri

Senza sforzo incede la vita,
il senso infine di risolve da sè.
Nascoste in un capriccio del vento
le risa squillanti dei poveri.

Raccolgo tra le voci di maggio
il sussurrio della trama del mondo,
come un timido esistere che sta
frammisto ai rumori di sempre.

Origlio le note del tempo:
s'ode soltanto il segreto
dell'arcano telaio del cielo.

Permea dal mare di nubi
un pianto di luce; piove
e nasce un canto di lamiere.
Le mirabili scoperte di cuore del dottor Bazzoli (Parte 2 di 3)

Come ogni mattina il dottor Bazzoli, nel giorno che precedette quello della sua follia apparente, si vestì di tutto punto, camicia e giacca scura, per dirigersi al lavoro. Insegnava la materia più delicata ed al contempo difficile del mondo, quella capace di prendere un sedicenne e farlo sprofondare in un depresso disagio esistenziale ed al contempo annoiare tutti i suoi compagni di banco lì attorno: la filosofia. Era un insegnante rigoroso, amava definirsi hegeliano e, a detta di qualcuno dei suoi alunni più maldicenti, amava considerare il suo mai appagato bisogno di smembrare ogni problema, razionalizzarlo ed incasellarlo, un naturale effetto della triplice ripartizione in tesi antitesi e sintesi così come fu definita dal grande filosofo. In effetti il suo metodo era ossessivamente minuzioso: per scelta aveva eliminato le valutazioni classiche eccessivamente grossolane, con la numerazione da zero a dieci, dall’inferno all’eccellenza, per sostituirle con un complesso sistema di segni positivi e negativi che ad ogni impressione, durante le interrogazioni, annotava su un suo certo quadernetto. Quindi, contando il numero di più e meno presenti vicino ad ogni nome, mediante qualche algoritmo ancora sconosciuto alla matematica moderna calcolava alla fine del quadrimestre le votazioni degli studenti, piegando all’ultimo la testa ai convenzionali numeri. Amava ritenersi acuto, acuto al punto da escogitare tutta una serie di trabocchetti per mettere nel sacco gli studenti impreparati durante le interrogazioni, domande subdole e poste in un linguaggio accademico dei tempi in cui aveva studiato, a cui gli interrogati balbettavano qualche magra risposta senza senso. Durante le spiegazioni, soppesava ogni parola con razionale inquadramento all’interno della frase, con attenzione alla sintassi, prendendosi delle pause silenziose e meditabonde tra una parola e l’altra, come una infinita serie di puntini di sospensione, mai stanchi di uscire in fila indiana dalla sua pensierosa testa fumante di filosofo a scuola. Ogni tanto, con una certa ironia che gustava da solo in una classe di ragazzi sonnacchiosi, nel bel mezzo di una spiegazione su Parmenide esclamava, Le finestre sono aperte, possiamo dirlo!, per poi dire una parolaccia qualsiasi, che nella sua mente contorta ma precisa vedeva passare tra le file di banchi di compensato, aleggiare ed indugiare un poco nell’aria per poi uscire libera rapita dal vento primaverile. Il dottor Bazzoli insomma era un uomo particolare, ma la sua particolarità, oltre ad essere un po’ noiosa per quegli studenti sfaccendati, non era poi di danno a nessuno, se non forse a quei pochi alunni che, se avessero avuto un oratore meno preciso e più vispo, avrebbero amato la filosofia come si ama una donna fascinosa e piena di mistero. E’ dal mattino che precedette il giorno della sua apparente follia che seguiremo i suoi passi, che poco a poco entreremo nelle sue ragioni, conoscendo già lo svolgersi dei fatti futuri. Questo anziano signore sulla sessantina si svegliò con una strana sensazione, come una allegrezza in corpo che non gli capitava da anni e forse non gli era mai capitata. Aprì la finestra della sua camera, spalancò gli scuri ed il sole di maggio gi accarezzò il volto, gentile. Sentiva i suoi pensieri come slegati, come se, poco a poco durante le prime azioni del mattino,  a quei soliti puntini di sospensione si sostituissero aggettivi, incisi e subordinate d’ogni tipo, come se il filo logico dei suoi pensieri stesse diventando d’un tratto, accade proprio ora sotto i nostri occhi invisibili, fluido snello ed agile, come quello di un Socrate ventenne. Durante la colazione insieme alle parole vennero a galla emozioni nuove, mai provate o almeno dimenticate. Sentiva una gioia cristallina crescere nel petto smagrito dalla sua vita solitaria. Conosceva le parole per descrivere quelle emozioni, eccole lì, già servite sul piatto della sua mente nel giro di qualche secondo e conoscendo le parole poteva discernere poco a poco sentimenti via via più raffinati, come filtrati da un lessico più completo. La tristezza non era malinconia, la malinconia non era sofferenza, v’era più poesia. La poesia che non aveva amato mai in tutta una vita gli parve degna di pregio. Senza riferimenti in particolare, la poesia tutta, tutti i poeti nel loro sforzo sovraumano di ricondurre in parole le sfumature dei mondi visibili e invisibili che albergano dentro i confini di ciò che definiamo per semplicità essere umano. Mosse qualche passo fino allo studio, dove tra gli scaffali, i manuali, i commenti alle opere dei grandi filosofi, cercò un libricino di quel poeta italiano, di cui gli sfuggiva il nome. Non lo trovò. Fa niente, pensò, farò un salto in libreria a comperare un nuovo compagno a tutto questo spremersi di meningi che ho accumulato qui. Uscì di casa leggero ed in strada si sentì libero, al punto che accennò un breve passo di danza, prima di ricordarsi il suo nome ed il suo ruolo di professore, che gli fecero riprendere la cadenzata camminata canonica, lasciando però trasparire una eleganza nuova. Guardò in alto ad osservare il cielo e camminò un poco con il collo reclinato all’indietro, come fosse ad un passo dal perdere l’equilibrio e cadere a terra. Vedeva in quell’azzurro una strana solidità, come una presenza materiale più pronunciata. Alcune nuvole che si stavano allontanando all’orizzonte gli parvero di un biancore brillante, nuovo, ne osservò le forme con rinnovato entusiasmo come fossero statue itineranti immense che a breve sarebbero sparite dalla vista, forse cadendo a terra, forse disperdendosi in vapore: andavano osservate nei dettagli e nell’insieme, prima che mutassero per sempre. Forse per il bel sole che incideva a terra ombre nette, la realtà tutta gli parve più ricca. Mi sembra quasi di poter distinguere i mattoni con cui è costruita la realtà, pensò per un attimo e poi, Che sciocchezza!, ma sorrise. Si gettò in libreria una decina di minuti prima del lavoro e, tamburellando un ritmo sconosciuto con indice e medio sulla coscia, si diresse verso i libri di poesia. Ecco, sfilò dalla mensola una raccolta di poesie di Quasimodo, pagò di fretta e letteralmente corse al lavoro. 

venerdì 22 maggio 2009

Le mirabili scoperte di cuore del dottor Bazzoli (Parte 1 di 3)

Pazzo. Pazzo, dicevano già le voci malevole mentre passava. Quel giorno effettivamente il dottor Bazzoli non appariva, almeno agli occhi dei suoi concittadini, nella sua veste migliore. Se ne andava, mezzo storto, con le gambe un poco piegate, facendo attenzione ad ogni passo, storcendo i piedi verso l‘esterno in una innaturale rotazione della caviglia. Aveva le braccia proiettate in avanti ed in quella tarda mattinata di primavera le mani si erano trasformate in scandagli, simili alle antenne delle formiche. Ogni tanto ne richiudeva una, la portava vicino al volto e la riapriva lentamente, con cura e premura. La osservava con estrema attenzione, con dedizione completa, mentre le dita si schiudevano una ad una: prima il pollice si separava dalle altre quattro dita, poi l’indice ed il medio, aprendo piano il palmo fino a distenderlo completamente. Il sole batteva sulla sua pelle anziana ed il dottor Bazzoli se ne stava lì, in un mondo tutto suo, ad osservare l’aria afferrata di recente, come se avesse un significato tutto nuovo e degno d’interesse. Chi tra i presenti provò ad avvicinarlo, a pochi passi dalla meta rinunciò all’intento, notando l’espressione del suo volto gioiosa, notando il grande sorriso che si allargava conquistando lo spazio dove prima v’erano, quasi sempre immobili, le sue guancie sbiadite e glabre. Guardandolo negli occhi era chiaro ai più che qualcosa quel giorno s’era rotto nella testa del dottore e che non sarebbe stata sufficiente una ordinaria prescrizione medica per far rinsavire il poveretto: le pupille erano infatti estremamente dilatate, l’iride marrone era come caduta dentro quei buchi neri e ne rimaneva solamente una corona assottigliata, un cerchio castano che cingeva l’oscurità come un fossato. Dai condotti lacrimali sgorgava copioso un pianto che scendeva giù a goccioloni, a fiumi, inondando le guance e quella smorfia di sorriso tanto pronunciata, fino al mento ed ancora giù, per cozzare, irrimediabilmente assorbite, sulla camicia bianca che aveva indossato nella meccanicità del mattino del giorno precedente. La cittadina dove il dottor Bazzoli viveva era uno di quei gioielli  architettonici fioriti durante il rinascimento italiano e, oltre ai monumenti, alle chiese, agli affreschi ed ai musei, a testimoniarlo vi era soprattutto un grande flusso di turisti di ogni genere, trasportati comodamente, particolare nient’affatto trascurabile per gli eventi che sarebbero accaduti di lì a poco, su calessi trainati da stanchi cavalli, a cui, per il rispetto del cittadino decoro, era stato vietato il più naturale dei diritti, e cioè quello di alzare la coda e espletare le proprie necessità fisiologiche in santa pace. Questi cavalli avevano dei sacchi, legati con qualche laccio misterioso alle natiche, a raccogliere le erbacee feci puzzolenti e così trainavano il calesse, peso della proprio sterco e turisti compreso. D’altra parte, se ci è permessa una riflessione, quella era una città di grande cultura e pregio artistico e l’uomo ama i cavalli ed i giri in calesse solo fino a quando non gli insozzano il selciato, fino a quando la civiltà non perde la sua pudica e morale rispettabilità. Le feci, per quanto siano per ognuno una realtà quotidiana, rimangono per tutti sgradevoli e private. Ecco un calesse con a bordo una intera famiglia, a giudicare dai berretti e dalle macchine fotografiche provenienti dall’Asia lontana o da un altro pianeta, che si fermò di colpo, proprio a pochi metri dal nostro eroe che, non dimentichiamolo, se ne andava per le vie della sua città fuori di senno. I cavalli affaticati battevano la fiacca ed il cocchiere li incitava com’è solito avvenga nelle città d’arte, con un frustino ed una valanga di improperi d’ogni genere. Uno dei cavalli in particolare, quello di destra, sembrava non volersi muovere di un solo passo ed il cocchiere nuovamente a convincerlo ad insulti e frustate. Il dottor Bazzoli per un istante guardò stupito la scena, come stupido ma soltanto stupito, per poi andare incontro alla bestia con i suoi premurosi passi storti, con gli occhi pieni di lacrime e quel sorriso stravagante. Il cavallo nitriva di dolore ed ecco che egli si avvicinò fino a sentire l’odore del pelo bagnato, allungò con calma le braccia e, sempre masticando l’aria con le mani, strinse il collo dell’animale in un lungo, tenero, amorevole, dolce e compassionevole abbraccio. Se lo strinse a sé come in gioventù aveva stretto qualche ragazza per cui aveva perso la testa, con affetto ed intimità. Appoggiò poi la guancia al pelo marrone e bianco e scoppiò poi in un pianto nuovo, questa volta smodato e rumoroso, come un lamento carico di sofferenza. Gli asiatici stupiti fecero decine di fotografie. Fotografarono quello sconosciuto abbracciato al cavallo, fotografarono i passanti che finalmente si decisero ad afferrare il dottore, strappandolo dal collo del nuovo inseparabile compagno, fotografarono gli uomini in bianco giunti dopo alcuni minuti sul posto e con gli ultimi scatti rubarono un ricordo di quando l’uomo ormai legato ad una barella veniva portato via su una piccola ambulanza. Pare che in queste foto, sullo sfondo, si notasse un importante monumento cittadino, a cui la famiglia non fece stranamente caso riguardando a posteriori quelle foto del viaggio in Italia. Misteri del turismo che a noi cittadini ordinari non è dato di comprendere. Nel frattempo il dottor Bazzoli era stato portato al più vicino ospedale psichiatrico per degli accertamenti ed ulteriori esami. Anche immobile sul lettino, il sorriso stravagante rimaneva dipinto sul suo volto, così come le lacrime continuavano senza pausa a comparire agli angoli degli occhi, come se qualcuno dall’interno stesse spremendo i bulbi come limoni maturi. Quel che accadde in seguito non è dato di sapere.

mercoledì 20 maggio 2009

Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
La moglie del medico si alzò e andoò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, E' arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.


- Saramago -

martedì 19 maggio 2009

La vita è una piena ricchezza, ogni giorna una possibilità di danzare intorno al proprio cuore.

giovedì 14 maggio 2009

Irraggiungibile sconfinata
anima dei poeti.

Si alza il mio canto d'inchiostro
muta preghiera di cenere
vibrante burrasca d'amore,
stravolta sposa notturna
ricongiunta infine
a te solamente.

Possa il crepitio del mio spirito
unirsi per sempre all'anima vostra
che arde immane
infinita
luminosa,
stella di litio
nascosta dietro al mondo.

Di me stesso 
non sono che ricordo
infimo
silente 
e vuoto.

mercoledì 13 maggio 2009

La scomparsa mattutina di Adam Smith (Parte 3 di 3)

Le seguenti parole comparvero sulla carta .

Le frontiere non esistono. Le frontiere non sono altro che la xenofoba risposta alla paura umana per la sconfinata immensità e vastità dell’esistenza. Le frontiere sono confini stabiliti arbitrariamente dalla nostra mente, incapace di accettare l’estrema interconnessione delle cose. Amavo definirmi me stesso ed ero solito indicare l’altro. Ma ora nulla è rimasto, non Io, non Tu, non il diverso. Niente interno ed esterno, niente paura. Non v’è necessità alcuna di superare le frontiere per colui che semplicemente comprende, è e vive in tutte le cose, in ogni luogo. Il cielo ha bevuto la clessidra del tempo, quest’attimo è eterno, senza inizio e senza fine. Chiedete all’arcobaleno il confine che separa i suoi colori e quello riderà di voi. Chiedete alla Terra dove finisca la sua pelle d’aria e dove inizi l’universo e quella riderà di voi. Domandate all’Oceano di elencarvi i suoi mari e quello risponderà solamente acqua. Le frontiere sono la prigione che costruiamo per il nostro spirito, per poterlo trattenere, per poterlo osservare e dire esisto. Più l’uomo è debole e piccolo, più le frontiere dentro cui si barrica sono ristrette e vincolanti. Ho visto recinzioni innalzate con la scusa di proteggersi, innalzate a servizio della propria vita, del proprio benessere. Sono le frontiere dell’odio. Ho visto frontiere invisibili, fatte di opinioni che sbattono l’una contro l’altra senza volontà di capirsi, senza volontà di andare oltre le differenze. Ho visto uomini chiamarsi per nome e dire Io sono il mio Nome. Ho visto uomini dire Io, senza permettere all’altro di arrogarsi lo stesso identico diritto. Di tutte le frontiere sono ormai stanco, di tutti i diversi che non esistono, che sono il ritratto della nostra sofferenza. Annullerò il grande confine. Mi sciolgo adesso, lascio queste parole come un gesto dovuto, come un dono a coloro i quali vorranno superarsi. Ho riscoperto me stesso.

Quindi, deposta la penna sul foglio, quel che rimaneva dello scrittore Adam Smith andò a coricarsi: quelle membra rotte si distesero sul giaciglio d’ogni giorno. Lentamente si sciolse il nodo della garza al polso destro. Il sangue iniziò a defluire piano, pigramente. Attese. Attese quella che noi chiamiamo morte e che per lui fu solamente un’altra frontiera, la frontiera ultima. La paura viscerale dell’uomo. Erano le dieci e quindici quando superò quella soglia, ancora una volta, come nei suoi racconti, oltre lo spavento supremo. Ma dentro, mentre si addormentava, sentì solamente un alito di vento fresco e un sibilo, il suo ultimo espiro. Chiuse gli occhi. Perse di vista la realtà, così come quel mattino l’aveva riscoperta, con un sorriso accennato sulle labbra.

The End

martedì 12 maggio 2009

La scomparsa mattutina di Adam Smith (Parte 2 di 3)

Gettò lontano il quaderno, come ustionante, in un moto di disgusto profondo: ma era, ormai, troppo tardi. Ripensò agli attimi precedenti a quel gesto e non vi scorse che vuoto, vuoto nella giornata precedente, vuoto nei suoi ricordi passati, vuoto nei suoi sentimenti, vuoto come un’anfora vuota, senza confusione senza più sofferenza o spavento, vuoto come se la sua esistenza si fosse rotta, come se i confini definiti che rappresentavano Adam Smith fossero caduti, capitolati come una roccaforte assediata. Scomparsa era la sua personalità. Non vedeva nemmeno i cocci rotti di se stesso, non vedeva o sentiva più nulla, guardò con dubbioso sospetto il quaderno scaraventato a terra, alcuni fogli sparsi sul pavimento, come se dovessero significare qualcosa: qualcosa che non ricordava. 
Con metodo, come un esperto chirurgo, riprese il filo delle proprie azioni, con una naturalezza che non si poneva domande e non esigeva risposte. Quell’uomo che una volta era Adam Smith si alzò dalla poltrona e si diresse verso il bagno, sostò immobile un istante davanti allo specchio. Guardò la propria forma riflessa. Infilò i polpastrelli dell’indice e del dito medio dietro quella superficie fredda ed aprì l’anta dall’armadietto che vi era nascosto dietro. Prese una garza ed una lametta da rasoio. Richiuse l’anta e guardò nuovamente: il vetro dello specchio si era silenziosamente fratturato e la sua immagine, la sua persona, giaceva adagiata su quella superficie come un ritratto cubista, spezzata da una ferita che partiva dalla fronte, scendendo giù come una cicatrice mal chiusa, fino al mento. Non sentì alcun fastidio. Le sue azioni erano essenziali, compiute con semplicità: non vi era un fine o traguardo da raggiungere, solamente movimenti nitidi e chiari. Ritornò al tavolo dove lavorava e prese il calamaio dal cassetto: la stilografica era il vanesio piacere della sua vita passata. Tenendo la lametta stretta tra pollice ed indice della mano sinistra, si incise un lungo solco di dolore sul polso destro, da cui sgorgò un fiotto di sangue scuro e denso. Lasciò cadere la lametta che tintinnò sul tavolo e indirizzò quel rivolo venoso d’inchiostro rosso nel calamaio. Poi si fasciò la ferita avvolgendola saldamente nella garza. Stette in silenzio. Prese un foglio di carta bianca. Con naturalezza, come se l’avesse sempre saputo fare, impugnò la penna nella mano sinistra, bagnò il pennino nella propria emoglobina e scrisse, da destra verso sinistra, rivolgendo le lettere contro la loro naturale direzione, contro quello che era il normale svolgersi dei suoi pensieri precedenti. Gli angoli della sua bocca sottile s’incresparono in un mezzo sorriso.

...to be continued.

lunedì 11 maggio 2009

La scomparsa mattutina di Adam Smith (Parte 1 di 3)

Adam Smith si svegliò. Sentì il cuore battere, nuovamente. Aprì gli occhi: la realtà. Sentì un sibilare incessante, come di serpente, in sottofondo e se ne accorse solamente un istante in ritardo: era il suo respiro. Mentre conquistava la posizione eretta, s’inorgoglì pensando a quanti milioni di anni furono necessari all’uomo per trasformarsi in erectus. A lui furono sufficienti alcuni secondi ed eccolo in piedi. Lontano dai suoi dissimili antenati. Si sentiva assonnato e intontito eppure quel misterioso marchingegno, fatto di ruote meccaniche e neuroni che era il suo cervello, era già in moto, alla ricerca del giorno precedente, alla ricerca di un soggetto che riempisse la mattina. Scioccamente. Poi si fermò, un istante solo, folgorato da una seconda sveglia: un suono nitido e preciso: un lungo rintocco elegante svuotò per un attimo l’anfora già gremita dei suoi pensieri e rimase a mezz’aria, mezzo vuoto; emerse una domanda. “Chi sei?” Non si rispose. Guardò l’orologio. Erano le sette e quarantacinque ed avrebbe dovuto iniziare a scrivere. Magari a scrivere di se stesso, quel vizio di vanità dello scrittore che ama riprendere il filo logico dei propri pensieri e tramutarli in qualcosa di altro, guardarli dall’esterno, osservarli e compiacersi della loro eleganza, della loro ormai irrevocabile struttura. Magari un racconto di paura e spavento. Si avvicinò alla scrivania. Una sorta di repulsione a livello dello stomaco, una nausea da mare grosso del colore del vino lo fece naufragare sulla poltrona lì di fianco. Provava una certa difficoltà, da qualche tempo. Non una difficoltà insormontabile, eppure una difficoltà che andava crescendo con il passare dei giorni, che rallentava le sue parole, anestetizzava la penna, allontanava la punteggiatura. Grandi spazi, pagine bianche, rimanevano clamorosamente incompiute sul suo quaderno, come se le parole nei suoi racconti fossero diventate invisibili, senza sostanza, come se fossero fuggite lontano, dentro lo spessore della carta. Per questo lo colse la nausea: non era affatto curioso di voler riaprire quel quaderno e vedere quali delle parole di ieri erano ancora scritte e quali erano invece scomparse, sparite. Si chiese ancora una volta, incapace di darsi risposta, se fosse il caso anche quella mattina di cercare tra le pagine quello che era rimasto dei suoi scritti del giorno precedente. Fece questo pensiero e la nausea lo riprese. “Che diavolo” pensò “sono solamente i miei diari”. Eppure le sue braccia tremavano di un fremito debole, senza forza. Quella mattina si sentiva diverso, percepiva un cielo presago, scuro di nubi nella volta celeste della sua memoria e quella domanda senza risposta “chi sei?” che affiorò ancora una volta alla superficie dei suoi pensieri. Risoluto andò alla scrivania, strappò al tavolo le sue carte e ritornò a sedersi. Sussurrò a se stesso “non lo fare” ed invece andò contro il proprio buon senso, istinto animale di conservazione: di scatto conficcò i pollici tra due pagine, nel mezzo dell’agenda e l’aprì con violenza, come se avesse dosato malamente la forza necessaria per quel gesto ed invece che aprire un quaderno stesse spaccando in parti eguali una pietra. Udì un bisbiglio provenire dalla carta, come una formula magica pronunciata a bassa voce: vide l’inchiostro emergere dalla sua sede, allontanarsi dalla pagina, piegarsi prima in fili di fumo blu e perdersi poi in una nuvola disomogenea. “Chi sei?” A caratteri enormi, rimanevano incise ossessive, oscene queste sei lettere. 

...to be continued.

mercoledì 6 maggio 2009

Atena

Sarei, preziosi compagni di mare,
un solitario Nessuno vagabondo
se lontano dalle eleganti anime vostre
vivessi questo eterno viaggio di volta.

Fu un miracolo dagli occhi lucenti
a tessere una lacrima d'oro e d'argento
nei nostri destini scritti e celati,
mosaico di sabbia ancora incompiuto.

Voi siete le mie rime sbaciate,
amici, fratelli da tempo immemore
siete delizia del mio cuore bambino.

Aurora mostrerà le sue dita di rosa:
Odisseo tornerò alla mia Itaca fiorita
e voi Achei, ognuno alla sua casa.

lunedì 4 maggio 2009

Lascio andare.
Niente attesa, niente aspettativa, niente speranze per il future. La via è semplice, è come un pianto umile, che si fa piccolo ed interno. La foresta cresce senza far rumore. Così l'albero della conoscenza interiore. E' un percorso piccolo che commuove, che sospende per un attimo il giudizio e si abbandona finalmente, si mette e rimette alle mani dei propri padri, al loro consiglio.

Cerco il vuoto, con umiltà e nel silenzio.
Il Dharma è una nuvola,
la grande Ruota ruota senza necessità del mio intervento.

Mi sciolgo.

domenica 3 maggio 2009

Morrumbala è il nome di una montagna ricoperta di erba alta due metri, fino alla cima a mille e cento metri: una quasi collina con mille metri di dislivello in tre ore. Due squadre, magliette rosse e magliette gialle, più un arbitro. Sudore e stanchezza. Sulla cima, i ripetitori ed un guardiano sfaccendato. La terra era bruciata. Il panorama verdeggiante.