lunedì 11 maggio 2009

La scomparsa mattutina di Adam Smith (Parte 1 di 3)

Adam Smith si svegliò. Sentì il cuore battere, nuovamente. Aprì gli occhi: la realtà. Sentì un sibilare incessante, come di serpente, in sottofondo e se ne accorse solamente un istante in ritardo: era il suo respiro. Mentre conquistava la posizione eretta, s’inorgoglì pensando a quanti milioni di anni furono necessari all’uomo per trasformarsi in erectus. A lui furono sufficienti alcuni secondi ed eccolo in piedi. Lontano dai suoi dissimili antenati. Si sentiva assonnato e intontito eppure quel misterioso marchingegno, fatto di ruote meccaniche e neuroni che era il suo cervello, era già in moto, alla ricerca del giorno precedente, alla ricerca di un soggetto che riempisse la mattina. Scioccamente. Poi si fermò, un istante solo, folgorato da una seconda sveglia: un suono nitido e preciso: un lungo rintocco elegante svuotò per un attimo l’anfora già gremita dei suoi pensieri e rimase a mezz’aria, mezzo vuoto; emerse una domanda. “Chi sei?” Non si rispose. Guardò l’orologio. Erano le sette e quarantacinque ed avrebbe dovuto iniziare a scrivere. Magari a scrivere di se stesso, quel vizio di vanità dello scrittore che ama riprendere il filo logico dei propri pensieri e tramutarli in qualcosa di altro, guardarli dall’esterno, osservarli e compiacersi della loro eleganza, della loro ormai irrevocabile struttura. Magari un racconto di paura e spavento. Si avvicinò alla scrivania. Una sorta di repulsione a livello dello stomaco, una nausea da mare grosso del colore del vino lo fece naufragare sulla poltrona lì di fianco. Provava una certa difficoltà, da qualche tempo. Non una difficoltà insormontabile, eppure una difficoltà che andava crescendo con il passare dei giorni, che rallentava le sue parole, anestetizzava la penna, allontanava la punteggiatura. Grandi spazi, pagine bianche, rimanevano clamorosamente incompiute sul suo quaderno, come se le parole nei suoi racconti fossero diventate invisibili, senza sostanza, come se fossero fuggite lontano, dentro lo spessore della carta. Per questo lo colse la nausea: non era affatto curioso di voler riaprire quel quaderno e vedere quali delle parole di ieri erano ancora scritte e quali erano invece scomparse, sparite. Si chiese ancora una volta, incapace di darsi risposta, se fosse il caso anche quella mattina di cercare tra le pagine quello che era rimasto dei suoi scritti del giorno precedente. Fece questo pensiero e la nausea lo riprese. “Che diavolo” pensò “sono solamente i miei diari”. Eppure le sue braccia tremavano di un fremito debole, senza forza. Quella mattina si sentiva diverso, percepiva un cielo presago, scuro di nubi nella volta celeste della sua memoria e quella domanda senza risposta “chi sei?” che affiorò ancora una volta alla superficie dei suoi pensieri. Risoluto andò alla scrivania, strappò al tavolo le sue carte e ritornò a sedersi. Sussurrò a se stesso “non lo fare” ed invece andò contro il proprio buon senso, istinto animale di conservazione: di scatto conficcò i pollici tra due pagine, nel mezzo dell’agenda e l’aprì con violenza, come se avesse dosato malamente la forza necessaria per quel gesto ed invece che aprire un quaderno stesse spaccando in parti eguali una pietra. Udì un bisbiglio provenire dalla carta, come una formula magica pronunciata a bassa voce: vide l’inchiostro emergere dalla sua sede, allontanarsi dalla pagina, piegarsi prima in fili di fumo blu e perdersi poi in una nuvola disomogenea. “Chi sei?” A caratteri enormi, rimanevano incise ossessive, oscene queste sei lettere. 

...to be continued.

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