martedì 29 settembre 2009

Segreti. Fortunato chi ne sente parlare. Valoroso e vincitore chi li cerca e li trova.

- A. Di Terlizzi -
La natura del miracolo è nascosta ai nostri occhi dai nostri occhi. L'esistente è un eterno miracolo che abbiamo imparato a disconoscere. Ci siamo abituati ai miracoli al punto da non essere capaci di riconoscerli come tali, quando essi si manifestano. Il percorso è il tentativo di aprire gli occhi una seconda volta e vedere l'esistente nella giusta ottica e quindi è la possibilità di attuare il miracolo interiore, quello cioè di affinare la propria percezione al punto da poter vedere davvero.

Non è che sia una cosa tanto astratta, questa, fumosa e priva di senso pratico. Ma forse così potrebbe apparire, dato che ad occhi chiusi tutto appare strano, perfino la possibilità di aprire gli occhi. Io non so di quale prova abbia bisogno l'uomo moderno per iniziare a farsi il culo, probabilmente Platone non gli basta, forse non gli basta nemmeno Laozi, prova diffidenza per un Cristo un po' datato (ma quello era figlio di Dio! ... diranno a 'mo di scusa), Seneca in latino non lo legge e su e su, fino ai giorni nostri, senza trovare qualcuno che gli faccia alzare le chiappe e che gli sembri degno di fiducia. Però però...con un fiammifero si innescano grandi incendi, anche incendi d'amore.

venerdì 25 settembre 2009

Riscopro in questi giorni la gioia del passeggio. Cammino per le strade che da venticinque anni mi ospitano, che in silenzio mi guardano crescere. Qual'è l'effetto dato dall'ascoltare musica camminando? E' un piccolo aiuto a scollegarsi dal mondo della materia, le note giuste riportano verso vibrazioni più alte e mi ritrovo leggero. In questo stato osservo quei tentativi unici e buffi di nome uomini. I volti sono le mie scoperte. C'è quello corrucciato, quella timida, quella con la bocca storta verso il basso in una smorfia, quella che cammina spavalda dall'alto dei suoi tacchi e della sua bellezza, c'è il sempliciotto con la sua camminata goffa, il fumatore con l'aria da umo vissuto ed il suo scettro del potere tra le dita...a volte il fumatore ti guarda, perché con la sua sigaretta ha toccato il fondo e quindi può reggere il tuo sguardo. C'è il metallaro, la gelataia che ti sorride e mentre ti porge il cono scopre un enorme tatuaggio che le sale su lungo il braccio pieno di serpenti e teschi, i bambini che giocano in piazza Lodron, ignari di tutto, semplicemente persi tra i loro dondoli a molla e quello scivolo tubolare. Ci sono i genitori che si preoccupano e che si fanno domande sui rispettivi marmocchi, Ma come è cresciuto il tuo!, Ma guarda che bella bimba che sei!, e poi gli adolescenti, inconfondibili e meravigliosi per il loro acerbo approccio alla vita, nel loro pensare o supporre di aver capito, di afferrare la prima moda e la prima personalità che capitano e farne un culto, farne uno stile ed un motivo di vita. Gli adolescenti si baciano, con il loro skate in mano, bevono e fumano, ridono ad alta voce, se ne sbattono, se ne fregano, scherzano là dove per la società non è conveniente. Non sanno ancora che saranno loro stessi a pepetrare le regole che infrangono e che solo per questo gli è concesso, perché sono adolescenti. Passa il matto, la netturbina, il pittore che quando ero piccolo era andato a Scommettiamo Che a fare l'imitazione dei versi degli animali e fischietta, fischietta ancora così come fa da anni. C'è una vecchia in sedia a rotelle con lo sguardo gelido e stretto, perso nel vuoto, smarrito in luoghi che non riconosce, quelli dei sentimenti che ha perso lungo la via e così si guarda attorno, senza domandarsi più nulla, con un sottile strisciante odio verso la vita che non tornerà più, o forse è solo una mia impressione.

E mi sale una gioia inspiegabile in questo, ricolma di esseri umani che vanno e che vengono, dentro e fuori dai loro mondi così differenti dal mio, in cui mi permetto di sbirciare per una frazione di secondo. Tutta qui, la mia felicità mentre passeggio.

giovedì 24 settembre 2009

La felicità è uno strano segreto celato e per sua natura non ha nulla da spartire con il mondo esterno, con il mondo delle cose materiali, né a nulla da spartire con gli altri. Il segreto della felicità si trova dentro, celato nelle pieghe invisibili della nostra mente, dove solamente noi stessi abbiamo il potere di agire, di allontanare una prospettiva di miseria e vivere nella vera ricchezza, come se ci riscoprissimo dentro un Re Mida interiore, capace di trasformare in oro il reale che sfiora con i sensi.

Ma tutto questo non è immediato e non è nemmeno concettuale o comprensibile. E' pura scoperta, puro viaggio al di dentro.

mercoledì 23 settembre 2009

Quello che c'è ciò che verrà
ciò che siamo stati
e comunque andrà
tutto si dissolverà.
Nell'apparenza e nel reale
nel regno fisico o in quello astrale
tutto si dissolverà.

Sulle scogliere fissavo il mare
che biancheggiava nell'oscurità
tutto si dissolverà.

Bisognerà per forza
attraversare alla fine
la porta dello spavento supremo.

- Battiato&Sgalambro -

sabato 19 settembre 2009

Il rombo della cascata Nardis

Il tempo perfetto è concluso. Il tempo perfetto è scivolato giù dall’alto della montagna lungo il ripido pendio di roccia bagnata, caduto, fratturato in infinite microscopiche gocciole d’acqua, in infiniti istanti perfetti, per poi riunirsi in basso, per confluire nuovamente verso l’unica grande direzione. Poiché la legge è una solamente: verso l’oceano. L’unica realtà davvero fondamentale, davvero importante ed al di sopra della nostra stessa comprensione, è la Pratica. Quando essa accade, si realizza, ecco che l’orologio del tempo si ferma ed inizia lo scorrere dell’enorme clessidra di acqua dal rombo di tuono, inizia lo scorrere della cascata. Per questo il come non è importante. Per questo qualsiasi tempo passato vivendo la Pratica e calandosi in essa è il tempo perfetto, poiché il percorso è a noi del tutto sconosciuto e nessun giudizio ha davvero significato, mentre procedere è tutto; porre un piede avanti all’altro lungo lo stretto percorso segnato come la terra ed il cielo entro cui ci muoviamo, quel percorso tra le rocce ed i flutti che segna il confine della nostra Possibilità. Inebriato da questo pensiero riemergo dalla notte alla fine della pratica, le mie braccia cercano la strada al di fuori della mantella bagnata e di fronte al grande mistero della natura giungo le mani e le incrocio al petto: ascolto il mio cuore, ritorno per un istante dove la speranza, la compassione ed il desiderio trovano il loro fisico rifugio e così prego per i maestri, per i compagni, per le persone a me care e per me stesso. Perché, pur nell’incomprensibile gioco della manifestazione, questo tentativo non vada sprecato, perché possa un giorno davvero realizzarsi il principio di luce, pace ed amore che permea i sentieri nascosti dell’Uomo.

Per l’ora e mezza precedente la cascata mi ha avvolto, al di fuori ben poco ha catturato il mio pensiero, solo la sua forza, il suo fragoroso cadere, il contatto tra noi vissuto attraverso quelle minuscole gocce di nebbia che a raffiche forti e deboli si posavano sul mio volto. Sentivo gli occhi gelidi, come vi fosse sulla linea tra le palpebre un minuscolo strato di ghiaccio; sentivo la gola freddarsi ed inumidirsi e più volte ho dovuto lasciare il sigillo delle mani per coprirla. La grande mantella in cui mi sono avvolto era il confine tra l’ambiente esterno freddo ed ostile e quello interno caldo ed accogliente. Dentro vi era un tepore confortevole ed amico, mentre fuori l’umidità conquistava terreno, prendendo un ginocchio scoperto, assaltando il volto e la gola. Silenzio ed osservazione, solamente le reazioni minime per non compromettere il mio stato di salute. Sentivo i pensieri roteare e turbinare nell’acqua, poi quando il vento calava, ecco che nasceva un momento di silenzio: dov’erano andati i rumori? Dov’era la cascata? Silenzio, discendi, attendi, osserva, abbandona le parole, osserva solamente... ... ... ... ed ecco una nuova raffica di vento, acqua e pensieri. D’un tratto apro gli occhi, per una volta soltanto e la guardo. Lì di fronte a me, nella sua enormità e nella mia piccolezza, in quel diafano contrasto con la notte nera delle pendici della montagna. Poi mi accorgo che i miei stati di coscienza iniziano a riaffiorare alla dimensione del reale, richiudo gli occhi e ritorno dentro me stesso.

venerdì 18 settembre 2009

Inno al Desiderio

A sciogliere gli inganni del mondo
una ad una sollevo le tue vesti
e di lusinghe cingo il tuo nudo corpo.

Nella luce delle candele del tempio
vivo il mio inchino al mistero d'unione
che tutto stravolge e sublima.

Ha inizio l'aurora dell'ultimo eros
e spande un piacere nel dialogo
tra gemiti che riecheggiano nel buio.

Ricerco il ritorno alla madre di terra
l'accesso segreto ai femminei reami
la cui porta tu sola custodisci.

E nel pieno richiamo di vita che accoglie
la mia carne si gonfia ed anela
ai tuoi celesti sogni di primavera.

Incrocio le gambe nel sacro sigillo
eretto è il mio membro: trasmuto,
io non più io ma chiave del cielo.

Stretta ti stringo mentre m'avvolgi
quando il mio r incontra il tuo s,
nel non luogo ove terra e cielo s'uniscono.

Umori diversi e liberi nel contatto
insieme solamente s'accordano i corpi
le nostre forme di uomo e di donna.

Salgono, s'afferrano si prendono
si legano svengono e gridano stravolti
esplodono e sfioro così il mistico frutto
dell'orgasmo di spirito e sangue
dell'orgasmo di voci e respiri
dell'orgasmo di menti dimentiche,
disperse senza parole né immagini.

mercoledì 16 settembre 2009

Ogni tanto mi capita di scorrere il cursore lungo i nomi più o meno vicini delle persone che si trovano nei miei contatti chat. Mentre il cursore scorreva qualche minuto fa, mi sono reso conto di come le piccole immagini due centimetri per due che ognuno sceglie per sè stesso nel tempo cambino, mutino a seconda dei eventi che accadono alle persone reali che vi stanno dietro, come a dire "in questo momento della mia vita mi sento più così, rispetto a quella foto vecchia". Così in un quadratino virtuale due per due, ognuno di noi inserisce un piccolo sé stesso e questo sé stesso negli anni crescerà ed invecchierà insieme a noi, diventando sempre più maturo.

Collezionare quelle piccole foto potrebbe significare rubare ad ognuno una fettina della sua storia.

lunedì 14 settembre 2009

Ed eccomi qui, dopo una settimana di dura pulizia casalinga, in cui ho imparato l'utilità di uno sgrassatore ed il ruolo indispensabile dell'anticalcare, sul poggiolo di casa. Ancora senza energia elettrica, procediamo a lume di candela, come ritornati in tempi o luoghi lontani. Solo la connessione internet scroccata a qualche vicino mi riporta nel mondo moderno, alzo lo sguardo e vedo il campanile solitario del Duomo e già mi sembra un po' casa e si sta bene.

Ho rivisto alcune persone che non vedevo da lungo tempo e che mi hanno mostrato come cambia il mondo, come incredibilmente anche la nostra generazione, per qualche genere di miracolo incomprensibile, compie ancora le stesse scelte, quelle che l'uomo compie da quando è nato e forse anche prima. Iniziamo a sposarci, a convivere, a tagliare la cotoletta a nostri figli piccoli e così forse si sta anche meglio, si è più vicini ad una sorta di "arrivo" su cui però tutti spesso d'adagiano.

Vedremo come andranno a finire le cose, vedremo come sarà la mia vita anche. Intanto mi bevo un tè e me ne sto qui sul poggiolo della mia nuova casa che condivido, condivivo, convivo e convivio.

domenica 6 settembre 2009


Il monastero di Reting

Alcuni anni fa, prima ancora di intraprendere il grande viaggio attraverso i mondi, mi trovavo sul fine dell’inverno nel Tibet occidentale. La terra era ancora fredda ed indurita dall’inverno appena passato, lo spoglio paesaggio tibetano riempiva il mio orizzonte con le sue linee semplici e dolci. Camminavo, parte di una breve colonna di pellegrini, per l’ampia vallata senza nome dove in una lontananza che ancora non potevo scorgere, si ergeva il monastero di Reting. La vastità fredda dello spazio semidesertico che mi circondava rappresentava il luogo della dissoluzione dei miei pensieri di uomo, come se tutto l’inutile non potesse incamminarsi lungo quella pista segnata dai passaggi nella terra dura, come se la mia personalità, ciò che ero, non avesse avuto al fine il coraggio bastante per seguirmi in quel viaggio lungo e faticoso, fatto di privazione, di cavolo bollito ad ogni pasto e di passi lenti calibrati sulla presenza rarefatta dell’ossigeno. A quattromila metri quel che rimaneva di me stesso erano solamente gli strati più leggeri della mia persona, mentre il corpo ed i pensieri di ieri erano dietro, abbandonati in qualche bivacco nella luce del primo mattino. Lungo il cammino la nostra lunga carovana di uomini e bestie lentamente si insinuava nella grande vallata, tra i suoi uccelli scuri dalle grandi ali che volteggiavano nel cielo, tra gli yak mansueti che pascolavano alla ricerca d’ogni stelo verde. Ricordo che per un istante mi fermai ad osservare una di queste vacche tibetane, la quale di rimando mi scrutava con una certa curiosità ed in una posizione estremamente femminile. Portava infatti alle orecchie, come gli altri capi della mandria, due nappe rosse che pendevano come eleganti orecchini. Nella posizione frontale, eretta ed elegante, teneva le zampe anteriori vagamente incrociate, come accavallate nel sensuale capriccio di nascondere la propria intimità. Lentamente estrassi dalla borsa la macchina fotografica e mossi con cautela la ghiera prima di scattare; quella si accorse del mio tentativo di imprigionare per sempre la sua bellezza in un ricordo di pellicola e quindi ruotò il capo in direzione opposta, lontano da me, guardando verso il centro della valle dove il resto della mandria sostava. Ripresi il cammino in silenzio.

Davanti a me, dopo circa un’ora, scorsi sulla pendice sinistra della valle una foresta, che si estendeva per un area circoscritta, inerpicandosi su per un pendio. La mia emozione fu grande quando vi penetrammo, il monastero di Reting era vicino e la sacralità del luogo era percepibile nel silenzio di quel bosco di ginepri. Gli alberi nelle loro forme contorte, nelle curve dolci, attorcigliate su sé stesse, svettavano al fine verso il cielo, come centinaia di campanili, come preghiere bisbigliate dalle frasche nel vento. A terra avvolte nelle radici o appoggiate ai tronchi, giacevano enormi massi scuri, maestosi, immobili come la terra, pazienti guardiani dei pellegrini che ormai vicini alla meta gettavano lo sguardo in avanti, alla ricerca del bianco e del rosso, le tinte sgargianti di cui sono dipinte le mura dei templi. Ciò che vi era di profondamente attraente in quelle piante secolari era il messaggio che portavano e che in quel momento non seppi decifrare. Come tutto l’altopiano, come le bestie e come gli uomini, anche quelle piante avevano a lungo combattuto contro l’ostilità dell’ambiente, avevano lottato per raggiungere il cielo e la luce ed infine solo alcune di loro erano sopravvissute, lasciando ampie radure tra una pianta e l’altra. In quel luogo, ormai prossimo al monastero, percepivo in qualche modo la presenza di un mondo oltre quello della materia, oltre a quello delle vane emozioni mondane, oltre ai contorti pensieri di chi vive più in basso: nell’aria, nei ginepri, nei massi e soprattutto nello spazio vuoto riempito solo a momenti dal rumore dei corvi potevo chiaramente percepire una la differenza, la presenza di una verità più profonda e meno labile, quasi eterna forse, in accordo con quel monastero senza tempo. Il mio sorriso ed il mio stupore si fermarono sul verde brillante delle frasche sparute nella luce del tardo pomeriggio, poi giungemmo alla porta ed al bianco muro esterno che segnava il perimetro del monastero di Reting. Eravamo giunti alla meta.

I monaci di Reting ci accolsero come i Tibet è usanza: entrammo in una sala interna con un tetto basso, colonne intarsiate di legno dipinte di colori intensi. Ci sedemmo su una polverosa stratificazione di tappeti di epoche e stili differenti, che perimetravano un basso tavolo in legno massiccio. Offrirono ai pochi membri della nostra carovana bicchiere di tè al burro dolce, che bevemmo con gioia, ben accolto dal nostro stomaco squassato dalla cattiva cucina dei giorni precedenti e dal freddo. In quelle stanze, in quei sorrisi di monaci la cui lingua non potevo comprendere, viveva un grande ed affascinante mistero, come se il mondo cercasse di comunicarmi una qualche evidenza della vita che non era però ancora chiara ai miei occhi, decrittabile e traducibile in pensiero cosciente. Ricordo che, salendo per una scalinata esterna, incontrai un monaco giovane alto ed elegante, avvolto nella propria mantella rosso porpora. Giunto vicino a me si fermò e per un istante ci guardammo negli occhi. Poi da dietro alla sua schiena sbucò in basso una testa lucida, un paio d’orecchie ed uno sguardo curioso, un bimbo sui dodici anni il cui corpo però ancora si confondeva nella sovrapposizione di rossi delle tuniche di diversa grandezza ma dello stesso colore che i due indossavano. Sorrisi loro senza dire nulla. Il bimbo emerse completamente dalla più grande figura del suo compagno e mi prese per mano. Qualsiasi gesto convenzionale, qualsiasi stretta o saluto mi parvero in quel momento superflui e senza significato e preferii lasciarmi trasportare in silenzio in alto verso una porta, poi attraverso la stessa ed altre stanze alcune sgombre e pulite, altre gremite di oggetti di culto, statue, oggetti per i rituali in disuso. Infine raggiungemmo una stanza ampia, ove al centro erano seduti quattro monaci anziani. La scena era illuminata dalla luce fioca di altrettante candele al burro di yak, le cui fiamme si ergevano come immobili e senza fluttuare nell’aria, forse per l’assenza di correnti d’aria, forse in accordo con la quiete che regnava in quel luogo. I quattro monaci anziani sicuramente notarono la nostra presenza ma nessuno di essi interruppe il lavoro cui erano dediti. Non erano immobili, ma muovevano impercettibilmente la schiena avanti ed indietro. I loro occhi erano semichiusi e le loro labbra si increspavano di tanto in tanto svelando l’emissione di un qualche suono impercettibile e ripetuto durante il minuzioso lavoro delle mani. Riuniti intorno allo spazio vuoto innanzi a loro quei monaci avevano da poco definito le linee principali di un nuovo Mandala, tirando alcuni sottilissimi fili di lino da una parte all’altra dello spazio accuratamente scelto per quell’indicibile effimera opera d’arte. Così ora, lentamente e con gesti essenziali si apprestavano a disegnare le prime geometriche linee del complesso disegno ed in questo io li osservavo nel modo in cui avrei potuto osservare con gli occhi il momento della creazione del cosmo, come se il Demiurgo si fosse manifestato attraverso quei quattro corpi e le prime leggi dell’universo intero venissero in quel momento stabilite, ormai immutabili fino alla distruzione di tutto l’esistente ed al prossimo inizio. Quegli uomini in quel momento muovevano le mani con la sapienza e la conoscenza di un dio. Il suono che pronunciavano era l’eco, la vibrazione armonica in cui era immersa la creazione stessa, lo stesso suono muto bisbigliato dalle fronde dei ginepri nel tardo pomeriggio, qualche ora prima. Stetti, immobile in osservazione, assistendo ad un miracolo, ad una metafora concreta che andava oltre ogni mia possibilità, ogni mia aspettativa; una metafora che nemmeno ora alla luce di ciò che ho realizzato è svelata, ma è anzi pregna di un mistero sempre più profondo ed inesplicabile, come se la soluzione si facesse più chiara, ma in questa chiarezza perdesse la possibilità di essere espressa con parole umane. Forse perché quello stesso enigma fatto di creazione, preghiera e distruzione non apparteneva alle cose umane, ma si elevava al di sopra della penombra di quel soffitto a cassettoni affrescato, al di sopra dei tetti piatti del monastero; su in alto, oltre le cime dei ginepri, al di là della volta del cielo, ove lo sguardo dell’uomo giunge solamente quand’egli impara a chiudere gli occhi.

venerdì 4 settembre 2009

Ritorno dalla solitudine

Quando il monaco Vetta-che-Ride ridiscese dalle sue montagne per prima cosa volle rivedere gli amici. Il suo cuore traboccava di una gioia incontenibile, di una esplosione visioni vissute e mai dette ad alcuno, poiché nella propria caverna viveva solo con la compagnia dell'aquila e del serpente. In lui si preparavano come cento primavere riunite, pronte a sbocciare ed a trasformarsi in germoglio, pianta e frutto.

Con questi pensieri ridiscese dalla montagna ed andò a cercare gli amici. Bussò alle loro porte, li rivide e li abbracciò. A lungo parlò con tutti loro e nei loro cuori volle scorgere quali fiori si fossero dischiusi durante la sua assenza ed in questo modo misurare anche se stesso. La sua urgenza non era quella di esprimere la propria visione attraverso affermazioni, ma di esprimerla attraverso domande e da quelle stesse domande si sarebbe potuto scorgere il suo cambiamento cresciuto all'ombra della luna piena, al canto del gufo ed al bramire del cervo. Per vivere nella solitudine Vetta-che-Ride aveva dovuto abbandonare qualsiasi dubbio, qualsiasi insicurezza e nel pianto affidarsi all'unica via, quella che sola avrebbe potuto tenerlo vicino a sé stesso, vicino ai propri compagni e vicino ai propri Maestri. Abbandonando la sicurezza, oltre la paura di essersi sbagliato, il monaco aveva fatto del Cerchio la sua forza ed in quel cerchio, in ogni anello di quella catena egli aveva profondamente creduto, poiché ben sapeva che ogni possibile incrinatura di tale perfetta geometria avrebbe significato anche la sua capitolazione. Ogni giorno pregava per loro ed a loro dedicava il sacrificio vivo della sua Pratica. In quella solitudine egli aveva compreso il Potere nascosto nella fede e nella fiducia e di quel potere si era fatto scudo quando la fame giungeva a tormentare le sue meditazioni; quel potere aveva usato come spada quando i draghi della notte vennero a fargli visita e cercarono di prendere la sua testa. Ebbe paura ma vinse i suoi nemici poiché sapeva di non essere solo.

Nessuno degli amici che Vetta-che-Ride incontrò potevano sapere tutto questo, perché loro ancora non avevano intrapreso la via della montagna e della solitudine e nella vicinanza del villaggio avevano l'occasione del confronto.

Quale il ruolo del Cerchio di Luce nel mondo?
Quale la fiducia riposta nelle mani dei Maestri?
Quale il significato della parola Fratellanza?
Quale il significato della parola Sincerità?
Quale il significato della parola Condivisione?

Queste furono le domande che il monaco pose alle persone che pensava che potessero capirlo e con quelle fu franco, fu completamente sincero e ad ognuna parlò come parlasse a sè stesso, oltre la convenzione sociale che prima viveva ancora tra loro, oltre le proprie paure, esponendo quanto di meglio avesse scoperto nella caverna e non nascondendo le proprie paure e le proprie debolezze. Alcuni vollero spiegarsi ed egli ascoltò. Altri vollero ascoltarlo ed egli parlò. A nessuno nascose nulla, né volle seguire alcuna regola sociale, alcuna forma di rispetto che non contemplasse la sincerità e l'amore che provava per loro. Se alcuni non erano pronti, egli questo non lo capì e questa fu la sua colpa, quella di vivere dell'emozione del ritorno, quell'emozione che vive nella realtà del presente l'antica idealizzazione nata nella lontananza. Alcuni non ebbero orecchie per le sue parole ed allo stesso modo le sue parole non furono abbastanza concrete per penetrare al di sotto della corazza del dubbio di altri. Così alcuni cuori enormi rimasero nascosti dietro alle parole e quand'egli capì, comprese anche di aver commesso un errore. Avrebbe dovuto attendere forse che alcuni dei suoi compagni fossero ridiscesi anch'essi dalla montagna, prima voler toccare il cuore di ognuno e di offrire il proprio in cambio.

Egli tornò alla sua capanna, fece scorrere il piolo di legno che chiudeva la porta, entrò e nella piccola stanza distese la stuoia di canniccio. Si sedette e nel silenzio a lungo rifletté sull'accaduto. Dopo alcune ore un grande sorriso comparve sul suo volto smagrito, come un sorriso che abbracciava la Terra e gli Esseri tutti. Dentro di sé ripeteva non mi sono sbagliato, i cuori di tutti noi sono puri. Lenito quindi il suo dolore, lasciò la posizione e si distese sul povero giaciglio. Quindi si addormentò ed un sonno ristoratore lo purificò dalle fatiche della sua impresa.

mercoledì 2 settembre 2009

Questa mattina mi sveglio con una considerazione amara, ho rispolverato alcuni cassetti e con essi alcuni ricordi. Mi rendo conto, una volta, di avere avuto alcuni amici o almeno persone a cui volevo un qualche tipo di bene, di cui ora non so più nulla.

E' come se foste emersi dalla massa degli sconosciuti per poi ritornarvici, per poi ritornare ad essere volti indefiniti tra i volti. Così, quando tra venti o trent'anni ci reincontreremo per strada, forse anche domani, i nostri cuori saranno l'uno per l'altro come due prugne secche ed invece di battere tossiranno, si spaventeranno, inventeranno falsi sorrisi e banali frasi di convenienza e forse entrambi o solo io, lo sapremo, che non v'è niente di più triste di quello che sta accadendo, ma che non ci si può fare niente, che è così. Mentiremo a noi stessi per salvare le nostre stupide scelte.

Tutto quello che sono, così diverso, così infinitamente più ricco e trasmutato di quello che ero, è proteso a non perdere persone buone lungo la strada, ma tuttavia non dipende solo da me. Io credo anche che alcuni di questi mi leggano qui, chissà che cazzo pensano, mentre leggono, questo io non lo so. Almeno, erano belle le foto dell'Africa? Perché questo è l'importante, le foto dell'Africa, le riflessioni sulla vita e la morte, mentre il rapporto vero tra le persone, quello è opzionale. In questo per me c'è solo amarezza, non ho ancora abbastanza barba ed arroganza per ammettere che non sia anche colpa mia.Vi voglio bene oggi soprattutto perché ci siamo smarriti.

martedì 1 settembre 2009

Scura cattedrale d'abeti

Incomprensibile giara di tenebra
tremula selva di ombre boschive
s'empie la mente del tuo cieco sguardo
e sgomenta si perde nel vuoto.

In quell'ora in cui la notte ti stringe
ella t'avvolge nel suo buio mantello
ed al fine stremato ti accoglie
nella immensa sua cattedrale d'abeti.
Nella notte ritorno a casa, dopo un incontro tra signori, dopo un incontro tra persone che ancora possiedono la possibilità e si apprestano a fare il possibile per raggiungerla. Quattro persone agli angoli della terra, come gli arcangeli, come i punti cardinali.