lunedì 27 luglio 2009

Dal soffitto gocciola dell'acqua. Gocciola qui, proprio sulla mia mano destra, in questo internet cafe moderno. Disturba le mie parole, ma non va poi male dopotutto. Sono giorni di grandi peregrinazioni ormai vicinissimi al lago Malawi. Leggo Kapuscinski e rivedo le mie avventure di viaggio presenti e passate, come qualcosa di facile ed a portata di mano. L' Africa non e' un luogo remoto e lontano, ma accessibile a tutti, se si e' disposti a qualche piccola scomodita'. Non ci sono piu' vuoti, luoghi sconosciuti e non mappati. Conradiani bvuchi bianchi nel centro del cuore negro.

Nao faz mal. C'e' molto ed altro da vivere.

venerdì 24 luglio 2009

Fin qui tutto bene. Anche se un tizio stamane ha cercato di trapparmi cinquecento meticais di mano! Il poliziotto che correva lento per cercare di beccarlo, un po' controvoglia. Buffe scene da grandi citta`.

sabato 18 luglio 2009

Notturna

Nera grazia di corvo
ruvida croce di rovo.
S'ode un grido muto
rinchiuso
nel grigio ventre di terra,
un rancore rappreso
che offusca lo sguardo.

Grande gorgo abissale
che tutto svuoti e trasmuti,
sei il cancro del giorno
l'amaro frutto del cielo.

Disperazione
dell'estremo nonsenso.
Ieri sera grande festa di despedida. Una trentina di persone, quasi tutte urbiache. Salvador che canta una canzone di Ramazzotti in pseudoitaliano, pizzicando a casaccio le corde della chitarra. Un sacco di risate, un tavolo grigio, né bianco né nero, una grande commistione di persone differenti. Una serie di video imperdibili di gag esileranti.

Le persone mi e ci salutano, sono affettuose e mostrano il meglio di sè. Una bella atmosfera nell'aria, una atmosfera allegra. Sono pronto a partire a dimenticare tutto un'altra volta ed a riprendere il cammino.

Apro la mano.

giovedì 16 luglio 2009

Oggi l'umore è come una bottiglia di sciampagna appena aperta, come in quell'attesa di riempire il calice, brindare e bagnarsi le labbra. Sono contento. Dicono che i blog dove le persone descrivono i propri stati emotivi siano destinati a non avere successo, a non avere fama ed utenti. Fama ed utenti virtuali, numeri e statistiche. Che ridere, roba da spisciarsi.

Tony qui, il bambino di strada senza genitori che l'anno scorso si è fatto Caia-Maputo (2000km) in autostop a undici anni, chiedendo un passaggio ai camionisti ed è tornato qui dopo otto mesi, ecco, Tony si mangia un pezzo di pizza a scrocco, qui al Consorzio. Spiegategliele voi le statistiche su un blog. E' un tipo sveglio, capirà di sicuro.

Rido, rido a crepapelle per gli pseudoproblemi della vita. Non è una risata d'arroganza, ma una risata di buon auspicio, che scaccia tutto il pianto e la disperazione e lascia solo le cose buone. La vita è una barzelletta...a qualcuno piacciono gli sturmtruppen, ma non so, forse è anche più ironica di così!

mercoledì 15 luglio 2009

martedì 14 luglio 2009

Io vorrei riportare l'essere umano alla sua naturale dignità, se possibile. Così come ricordo di avere vissuto, troppe volte ho condiviso il pensiero di essere un animale, senza considerare di essere un essere umano. Troppe volte ho pensato di essere il parente prossimo di una scimmia e troppe poche volte di avere dentro di me le qualità di una stella. E questo vale per tutti, a livello di atteggiamento di pensiero. Temo che, a forza di considerarci animali, lo diventeremo veramente. Ridendo di quelli che pensano all'uomo come qualcosa di più alto.

Cosa significa, davvero, essere un essere umano?
Lunghi capelli e l'età del Cristo (Parte 3 di 3)

“Un poeta, vorrei diventare” ripeteva a volte. Ed io che ero un poeta sapevo che non lo sarebbe mai diventato, che non si può diventare niente e che anche se avesse cercato di impugnare una penna, la poesia che pure vedeva nel mondo non sarebbe uscita in parole, in lettere, in rime anche malconcie. La sua poesia era destinata a rimanere negli occhi. Io da parte mia, essendo di qualche anno più piccolo, domandavo soltanto. Gli chiedevo questo e quello ed a volte nel bel mezzo di un discorso del tutto normale infilavo una domanda spregiudicata, volta a esplorare l’interno di quel mondo. Quelle volte si fermava silenzioso, sospeso nei propri pensieri, mi sembra di rivederlo, e stava in silenzio per un tempo lunghissimo, un tempo che avrebbe messo in imbarazzo chiunque se sottoposto a quei penetranti occhi inquisitori. Io rimanevo lì fermo, non distoglievo lo sguardo ed aspettavo. Le risposte il barba le aveva. Ma quel mio sostenere e ricambiare era anche un intrusione, era un voler sbirciare dentro la sua feritoia e quando non me lo voleva permettere scoppiava in una risata sonora, portando il busto e le spalle chiuse in avanti, quasi in una contorsione degli organi interni. Se decideva di rispondere invece si faceva serio e si esprimeva in modo cristallino e voce profonda, scandendo ogni sillaba. Poi prendeva il bicchiere nella mano destra e lo vuotava. L’ultima sera che lo vidi iniziò a parlare proprio dopo aver vuotato il bicchiere. Disse soltanto “Sono stanco, amico, di queste nostre camminate senza meta, di queste sere. Il mio passato l’ho perso, il futuro non lo vedo e per quanto riguarda il presente, di questo presente non so che fare.” Rimasi offeso, abbassai gli occhi. Mi sentivo ferito, come se fossi da quel momento anch’io un uomo come gli altri, di quelli uomini che non riusciva a guardare se non con superiorità. Poi guardai dentro di me. Anch’io mi sentii stanco, come se ciò che avremmo potuto dire da quel momento in avanti non sarebbe stato altro che un ricamo, un giro di parole nato dall’esigenza di riempire un vuoto. Come se la fonte da cui traevano spunto le mie domande, le mie incursioni in quel suo mondo fatto di bevute e falegnameria, di storie di paese con strani finali, fosse d’un tratto venuta a mancare, seccata al caldo sole di fine agosto. “Hai ragione, vecchia barba.” Il nostro era un addio. Mi alzai dal tavolaccio di legno grezzo e mossi alcuni passi fino al bancone del locale. Feci per pagare, ma il barista mi informò che il conto era stato saldato in anticipo, quella sera. Mentre lo diceva fece un impercettibile movimento del capo, sguardo basso, in direzione del mio compagno. Mi voltai verso di lui, sollevai un braccio e lui mi osservò immobile, come morto, tranne per quel fuoco negli occhi. Uscii e camminai nell’aria della sera, quasi mi pareva che fosse stato solo un peccato d’orgoglio di due uomini deboli, il nostro addio e decisi che il giorno dopo sarei tornato all’ospedale a prenderlo. Lui, davanti all’entrata del grande ospedale, non c’era. Entrai e mi informai se per caso quell’uomo in carrozzina non fosse già passato di lì o non avesse per caso ritardato di un poco negli esercizi di fisioterapia. “Sa una cosa?” iniziò l’infermiera “Ha chamato nel primo pomeriggio dicendo di essere miracolosamente guarito, dicendo di annullare tutti gli appuntamenti, dicenndo che d’ora in avanti solo la montagna sarebbe stata la sua cura...rideva di gusto...non so che dire.” “Nemmeno io.” le risposi. Nemmeno io ho la risposta.

The End.

Dedicato a Stefano, con l'augurio che nulla si avveri e presto ritorni a quei suoi balli sgangherati.

lunedì 13 luglio 2009

Lunghi capelli e l'età del Cristo (Parte 2 di 3)

Appena fuori dall’ospedale infilò la mano ossuta nel taschino della camicia, diede un lieve colpo al pacchetto ed infilò tra le labbra uno di quei cilindri di carta pieni di tabacco, senza filtro. Lui non cercava di uccidersi e salvarsi al contempo, lui cercava un estremo, oppure quello opposto. Mi guardò silenzioso, quella prima volta, mentre aspirava la sua sigaretta e quello sguardo pieno, quello sguardo d’aquila ristabiliva l’equlibrio tra le nostre altezze differenti: mi guardava da seduto, dal basso verso l’alto, eppure quegli occhi erano gli occhi di un rapace, le orbite di un uomo che aveva visto il mondo dall’alto ed ora era ridisceso in terra per raccontare agli altri, per raccontare anche a me, ciò che non avrei potuto vedere. Quegli occhi erano il centro del suo viso e della sua persona, erano lo stelle fisse, erano chiaramente il tramite da lui scelto tra interno ed esterno, tra il proprio mondo interiore ed il mondo. Erano l’unica feritoia in quell’alta cinta muraria costruita intorno al suo cuore e da quella feritoia non guardava all’esterno con paura, ma proiettava un raggio di luce cosmica, un dardo che svelava, che metteva a nudo. La sua debolezza era forse quella di usare quel potere per il proprio compiacimento, invece che per aiutare gli altri a superarsi. Sotto a quella fronte in tempesta quegli occhi castani, comuni, erano il porto sicuro a cui il barba faceva attraccare secondo il proprio umore le anime delle persone con cui dialogava. Il mio spirito in quel porto sostò il tempo sufficiente per capire, dopo le prime esplorazioni all’interno, che non era quello il continente in cui volevo abitare. Non scriverei queste righe se non avessi preso la decisione di salpare verso altre terre. Dopo quel giorno ci incontrammo spesso, ci trovavamo quasi ogni sera davanti alla porta di entrata di quell’ospedale, passavo a prenderlo alla fine dell’ora giornaliera di fisioterapia che, non avendo una cura, gli avevano consigliato e ce ne andavamo un po’ in giro, all’aperto, in estate. Ci piaceva camminare, se così si può chiamare l’incedere sulle ruote di un uomo debole di gambe, per il centro della città, guardando divertiti le facce meste, gli sguardi bassi delle persone che incontravano questa strana coppia di uomini barbuti, osservando quella pietà fasulla che abbassava gli occhi fingendo una certa riverenza per un uomo sfortunato, ma che era più semplicemente un bisogno di guardare distante, lontano da un simbolo in carne ed ossa di sfortuna umana. Quando si faceva tardi, stanco lui degli sguardi ed io di spingere, entravamo in qualche bar non troppo frequentato. Davanti ad una birra mi raccontava poco a poco la sua vita passata, la sua vita precedente, quella in cui era scordinato e gli amici lo prendevano in giro. Si apriva, si raccontava, perché ero capace di guardarlo negli occhi, ero capace di sopportare il suo sguardo e non solo, ero capace di rispondere a quel dardo con naturalezza. Era questo il nostro patto, segreto e mai stabilito: eravamo differenti, ma quella barba e quei capelli e quello sguardo li avevamo in comune.

...to be continued...

venerdì 10 luglio 2009

Lunghi capelli e l'età del Cristo (Parte 1 di 3)

Aveva trentatrè anni quando lo conobbi. Ed un male incurabile alle gambe. Era un uomo di estrema sensibilità, di quella sensibilità maschile grande e creativa, ma era cresciuto in un paesino di montagna e questo lo aveva indurito. Raccogliendo patate fin da piccolo, le mani rotte dalla terra, aveva imparato ad essere un duro, un uomo vero. Aveva costruito intorno a quell’anima fragile un’alta cinta di difesa da cui, sicuro della sicurezza acquisita, osservava le persone più deboli e più esposte di lui, quelle che non erano state capaci di un tale lavoro di protezione del proprio spazio interiore. Le osservava con un certo disprezzo, come ad accusarle di non aver compreso quanto sia difficile la vita nel tempo utile per correre ai ripari, per trovare un rimedio. Credendo la sua autodifesa una scelta ben ponderata, tenendo la propria natura nascosta, pretendeva dagli altri lo stesso scrificio di sensibilità e per questo motivo a volte feriva anche volontariamente, nell’altruistico tentativo di insegnare ai suoi simili quello che lui aveva imparato dalla terra, da quella terra che portava in grembo il nutrimento per la sua famiglia, ma donava il suo frutto d’amido al prezzo che lui ed il padre si spezzassero la schiena e si ferissero le mani. Come ogni uomo di paese che si rispetti riusciva a tracannare mezzo litro di birra in un sorso solo e quando cercava di moderarsi ci riusciva soltanto a patto di infilare tra un sorso e l’altro una intera sigaretta. Voleva smettere di fumare, voleva smettere di bere e ci aveva provato più volte, mi rivelò di volerci provare ancora, voleva chiudere con quella merda, ma io non gli credetti. E non perchè non lo volesse veramente, ma perché i suoi vizi erano troppi e sempre una misura avanti alla sua volontà. E quel male incurabile a trentatrè anni non migliorò la sua condizione già precaria. Lo conobbi in una sala d’aspetto di ospedale, in quell’aria nauseante di varichina e plastica bagnata, garanzia di igiene e soprattutto capace di coprire l’odore della morte, l’odore della paura, della disperazione e del pianto che sempre albergano in quelle corsie dai colori neutri. Se ne stava seduto con la carrozzina perfettamente allineata all’ultima sedia di plastica della fila accanto al muro, la sedia dov’ero seduto. “Pensa che fino ad un anno gli amici mi prendevano in giro perché quando ballavo ero estremamente scordinato! Pensa, queste stesse gambe se ne andavano da una parte e dell’altra a casaccio, come con vita prorpia, libere.” Mentre lo disse in uno sforzo quasi immane afferrò con entrambe le mani la gamba destra sopra il ginocchio e la sollevò di qualche centimetro solamente, quasi fosse stata la gamba di qualche altra persona o la gamba di una statua di piombo. La fece ricadere subito dopo. Io ero lì, come lui del resto, per fare delle analisi. Mi sentii inadeguato. Imbarazzato per un momento solo. “Andiamo” gli dissi. Mi alzai risoluto scivolai dietro alla sua carrozzina e lo spinsi lentamente lungo tutto il lungo corridoio che ci separava dalla porta scorrevole di entrata, una curva a detra ed una a sinistra, lentamente assaporando quel momento, lentamente chiedendomi perché stessi spingendo quella carrozzina e perché su quella carrozzina ci fosse seduto uno sconosciuto. Non trovai le risposte, ma l’aria fresca prese con sè quelle domande e le portò via. Descrivere il suo volto, il volto di quell’uomo nell’età di Cristo, poco più vecchio di me, ma anche più giovane, significa, lo capisco ora, descrivere una parte di me stesso. Significa raccontare ciò che avevamo in comune, ciò che ci avvicinava nonostante la grandissima distanza che separava le nostre vite fatte di mondi, persone e visioni differenti. Con una nota di scherno amorevole mi divertivo a chiamarlo barba, perché come me aveva una barba lunga ed incolta, molto più nera della mia. Portava i capelli lunghi, come i miei oggi. Devo forse confessare di averli fatti crescere nel tentativo di somigliarli, tentativo riuscito se non per gli occhiali che il barba non ha portato mai e la cui assenza gli permetteva quello che a me non è permesso e cioè di infilarsi le ciocche nere che gli cadevano sugli occhi dietro agli orecchi. Per miracolo quei capelli se ne stavano così, ordinati. La sua fronte era un mare in burrasca, la ricordo chiaramente. Alla sua età già si scorgevano le rughe della fatica, quelle del dubbio, quelle di colui che non ha trovato le risposte alle domande urgenti della vita e non avendole trovate semplicemente aveva un giorno deciso di serrarle in un baule e gettarle in mare aperto. Su quella fronte si portava adesso la preoccupazione che prima o poi qualcuno riportasse alla luce quel forziere di dubbi e questioni irrisolte.

...to be continued...

giovedì 9 luglio 2009

Cerchiobaleno lunare

Cielo svuotato di stelle, soltanto
Venere brilla in impari contesa
arresa nel confronto di volti
al tuo viso rotondo, chiara luna.

Cielo ricolmo di vapor d'acqua
solo un'aria di stracci bagnati
dimenticato ricordo di pioggia
ti fa dono del suo stanco omaggio.

Sposa del buio vesti una fede
di luce riflessa e riverbero,
un'ampio cerchiobaleno lunare.

Diafano inchino al tuo lucore
anch'io son ora rapito e canto
l'incanto di un diadema notturno.

mercoledì 8 luglio 2009

La Porta

Passato e futuro non è,
gioia o dolore non è,
stagioni non è
la chiave
del mio tempio di luce.

Unione tra gli esseri
comunione di vita:
tracce celate
di tale mistero.

Solitudine non è
la Via maestra del cuore.
Un po' come bere dalla coppa della vita. Con un aroma d'Africa. Tutto vive, l'esistente trasuda esistenza. Dentro e fuori. Grandi cose accadono. Alcune comprensibili, altre inesprimibili. Degli insetti orribili cadono intontiti, delle api notturne con un addome oblungo e molle, tintinnano sul neon e cadono.

Il silenzio ed il rumore. Giunge il tempo. Sono qui.

sabato 4 luglio 2009

Tutta da ridere. Una storia su una pentola. Ero qui in studio, stavo per chiudere la connessione cinque minuti fa. Poi è entrato un giocatore della squadra di calcio del Consorzio: "estou a pedir A4". Aveva bisogno di un foglio per gli schemi di gioco. Ed Elena gli chiede, Dov'è la pentola che vi abbiamo prestato qualche mese fa?, Quale pentola, quella fatta così?, No, quella fatta cosà!, Ah, quella pentola., un momento che vado a chiedere.

Ritorna il nostro uomo. Dona Elena, parece que uma pessoa esqueceu!, se la sono dimenticata da alcuni mesi a casa...Ricordatevela la prossima volta dunque. Certo Dona. Ritorna dopo due minuti esatti ed esordisce con:

"Dona a panela apareceu!!" Guardiamo fuori e ci stanno cucinando la polenta in questo esatto momento. L'ilarità sta tutta nella parola, apareceu, è apparsa, come una magia, come una madonna apparsa per miracolo. Così la pentola.

giovedì 2 luglio 2009

Uomo di ruggine

Ghigna un cielo
di cristalli infranti.
Cigola terrifico
un muto sospiro.

Grigia campana rintocca
funesto presagio di morte,
mesta sale al patibolo
l'ultima ora di quiete.

Un ignaro chiodo di ruggine
nuovamente ferisce un suo simile.

Anima all'aria
si ossida il cuore.
Fioca luce
perduta,
in un catino d'odio.

mercoledì 1 luglio 2009

Di ritorno. E' bello tornare una seconda, una terza volta, riconoscere i luoghi e le persone, eppure qualcosa è accaduto, di nuovo, durante il viaggio. I luoghi, le persone non sono più gli stessi, del tempo è trascorso.

Iniziano gli ultimi venti giorni a Caia.
E' strano eppure...ogni cosa ha un inizio ed una fine.