martedì 12 maggio 2009

La scomparsa mattutina di Adam Smith (Parte 2 di 3)

Gettò lontano il quaderno, come ustionante, in un moto di disgusto profondo: ma era, ormai, troppo tardi. Ripensò agli attimi precedenti a quel gesto e non vi scorse che vuoto, vuoto nella giornata precedente, vuoto nei suoi ricordi passati, vuoto nei suoi sentimenti, vuoto come un’anfora vuota, senza confusione senza più sofferenza o spavento, vuoto come se la sua esistenza si fosse rotta, come se i confini definiti che rappresentavano Adam Smith fossero caduti, capitolati come una roccaforte assediata. Scomparsa era la sua personalità. Non vedeva nemmeno i cocci rotti di se stesso, non vedeva o sentiva più nulla, guardò con dubbioso sospetto il quaderno scaraventato a terra, alcuni fogli sparsi sul pavimento, come se dovessero significare qualcosa: qualcosa che non ricordava. 
Con metodo, come un esperto chirurgo, riprese il filo delle proprie azioni, con una naturalezza che non si poneva domande e non esigeva risposte. Quell’uomo che una volta era Adam Smith si alzò dalla poltrona e si diresse verso il bagno, sostò immobile un istante davanti allo specchio. Guardò la propria forma riflessa. Infilò i polpastrelli dell’indice e del dito medio dietro quella superficie fredda ed aprì l’anta dall’armadietto che vi era nascosto dietro. Prese una garza ed una lametta da rasoio. Richiuse l’anta e guardò nuovamente: il vetro dello specchio si era silenziosamente fratturato e la sua immagine, la sua persona, giaceva adagiata su quella superficie come un ritratto cubista, spezzata da una ferita che partiva dalla fronte, scendendo giù come una cicatrice mal chiusa, fino al mento. Non sentì alcun fastidio. Le sue azioni erano essenziali, compiute con semplicità: non vi era un fine o traguardo da raggiungere, solamente movimenti nitidi e chiari. Ritornò al tavolo dove lavorava e prese il calamaio dal cassetto: la stilografica era il vanesio piacere della sua vita passata. Tenendo la lametta stretta tra pollice ed indice della mano sinistra, si incise un lungo solco di dolore sul polso destro, da cui sgorgò un fiotto di sangue scuro e denso. Lasciò cadere la lametta che tintinnò sul tavolo e indirizzò quel rivolo venoso d’inchiostro rosso nel calamaio. Poi si fasciò la ferita avvolgendola saldamente nella garza. Stette in silenzio. Prese un foglio di carta bianca. Con naturalezza, come se l’avesse sempre saputo fare, impugnò la penna nella mano sinistra, bagnò il pennino nella propria emoglobina e scrisse, da destra verso sinistra, rivolgendo le lettere contro la loro naturale direzione, contro quello che era il normale svolgersi dei suoi pensieri precedenti. Gli angoli della sua bocca sottile s’incresparono in un mezzo sorriso.

...to be continued.

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