sabato 23 maggio 2009

Le mirabili scoperte di cuore del dottor Bazzoli (Parte 2 di 3)

Come ogni mattina il dottor Bazzoli, nel giorno che precedette quello della sua follia apparente, si vestì di tutto punto, camicia e giacca scura, per dirigersi al lavoro. Insegnava la materia più delicata ed al contempo difficile del mondo, quella capace di prendere un sedicenne e farlo sprofondare in un depresso disagio esistenziale ed al contempo annoiare tutti i suoi compagni di banco lì attorno: la filosofia. Era un insegnante rigoroso, amava definirsi hegeliano e, a detta di qualcuno dei suoi alunni più maldicenti, amava considerare il suo mai appagato bisogno di smembrare ogni problema, razionalizzarlo ed incasellarlo, un naturale effetto della triplice ripartizione in tesi antitesi e sintesi così come fu definita dal grande filosofo. In effetti il suo metodo era ossessivamente minuzioso: per scelta aveva eliminato le valutazioni classiche eccessivamente grossolane, con la numerazione da zero a dieci, dall’inferno all’eccellenza, per sostituirle con un complesso sistema di segni positivi e negativi che ad ogni impressione, durante le interrogazioni, annotava su un suo certo quadernetto. Quindi, contando il numero di più e meno presenti vicino ad ogni nome, mediante qualche algoritmo ancora sconosciuto alla matematica moderna calcolava alla fine del quadrimestre le votazioni degli studenti, piegando all’ultimo la testa ai convenzionali numeri. Amava ritenersi acuto, acuto al punto da escogitare tutta una serie di trabocchetti per mettere nel sacco gli studenti impreparati durante le interrogazioni, domande subdole e poste in un linguaggio accademico dei tempi in cui aveva studiato, a cui gli interrogati balbettavano qualche magra risposta senza senso. Durante le spiegazioni, soppesava ogni parola con razionale inquadramento all’interno della frase, con attenzione alla sintassi, prendendosi delle pause silenziose e meditabonde tra una parola e l’altra, come una infinita serie di puntini di sospensione, mai stanchi di uscire in fila indiana dalla sua pensierosa testa fumante di filosofo a scuola. Ogni tanto, con una certa ironia che gustava da solo in una classe di ragazzi sonnacchiosi, nel bel mezzo di una spiegazione su Parmenide esclamava, Le finestre sono aperte, possiamo dirlo!, per poi dire una parolaccia qualsiasi, che nella sua mente contorta ma precisa vedeva passare tra le file di banchi di compensato, aleggiare ed indugiare un poco nell’aria per poi uscire libera rapita dal vento primaverile. Il dottor Bazzoli insomma era un uomo particolare, ma la sua particolarità, oltre ad essere un po’ noiosa per quegli studenti sfaccendati, non era poi di danno a nessuno, se non forse a quei pochi alunni che, se avessero avuto un oratore meno preciso e più vispo, avrebbero amato la filosofia come si ama una donna fascinosa e piena di mistero. E’ dal mattino che precedette il giorno della sua apparente follia che seguiremo i suoi passi, che poco a poco entreremo nelle sue ragioni, conoscendo già lo svolgersi dei fatti futuri. Questo anziano signore sulla sessantina si svegliò con una strana sensazione, come una allegrezza in corpo che non gli capitava da anni e forse non gli era mai capitata. Aprì la finestra della sua camera, spalancò gli scuri ed il sole di maggio gi accarezzò il volto, gentile. Sentiva i suoi pensieri come slegati, come se, poco a poco durante le prime azioni del mattino,  a quei soliti puntini di sospensione si sostituissero aggettivi, incisi e subordinate d’ogni tipo, come se il filo logico dei suoi pensieri stesse diventando d’un tratto, accade proprio ora sotto i nostri occhi invisibili, fluido snello ed agile, come quello di un Socrate ventenne. Durante la colazione insieme alle parole vennero a galla emozioni nuove, mai provate o almeno dimenticate. Sentiva una gioia cristallina crescere nel petto smagrito dalla sua vita solitaria. Conosceva le parole per descrivere quelle emozioni, eccole lì, già servite sul piatto della sua mente nel giro di qualche secondo e conoscendo le parole poteva discernere poco a poco sentimenti via via più raffinati, come filtrati da un lessico più completo. La tristezza non era malinconia, la malinconia non era sofferenza, v’era più poesia. La poesia che non aveva amato mai in tutta una vita gli parve degna di pregio. Senza riferimenti in particolare, la poesia tutta, tutti i poeti nel loro sforzo sovraumano di ricondurre in parole le sfumature dei mondi visibili e invisibili che albergano dentro i confini di ciò che definiamo per semplicità essere umano. Mosse qualche passo fino allo studio, dove tra gli scaffali, i manuali, i commenti alle opere dei grandi filosofi, cercò un libricino di quel poeta italiano, di cui gli sfuggiva il nome. Non lo trovò. Fa niente, pensò, farò un salto in libreria a comperare un nuovo compagno a tutto questo spremersi di meningi che ho accumulato qui. Uscì di casa leggero ed in strada si sentì libero, al punto che accennò un breve passo di danza, prima di ricordarsi il suo nome ed il suo ruolo di professore, che gli fecero riprendere la cadenzata camminata canonica, lasciando però trasparire una eleganza nuova. Guardò in alto ad osservare il cielo e camminò un poco con il collo reclinato all’indietro, come fosse ad un passo dal perdere l’equilibrio e cadere a terra. Vedeva in quell’azzurro una strana solidità, come una presenza materiale più pronunciata. Alcune nuvole che si stavano allontanando all’orizzonte gli parvero di un biancore brillante, nuovo, ne osservò le forme con rinnovato entusiasmo come fossero statue itineranti immense che a breve sarebbero sparite dalla vista, forse cadendo a terra, forse disperdendosi in vapore: andavano osservate nei dettagli e nell’insieme, prima che mutassero per sempre. Forse per il bel sole che incideva a terra ombre nette, la realtà tutta gli parve più ricca. Mi sembra quasi di poter distinguere i mattoni con cui è costruita la realtà, pensò per un attimo e poi, Che sciocchezza!, ma sorrise. Si gettò in libreria una decina di minuti prima del lavoro e, tamburellando un ritmo sconosciuto con indice e medio sulla coscia, si diresse verso i libri di poesia. Ecco, sfilò dalla mensola una raccolta di poesie di Quasimodo, pagò di fretta e letteralmente corse al lavoro. 

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