venerdì 10 luglio 2009

Lunghi capelli e l'età del Cristo (Parte 1 di 3)

Aveva trentatrè anni quando lo conobbi. Ed un male incurabile alle gambe. Era un uomo di estrema sensibilità, di quella sensibilità maschile grande e creativa, ma era cresciuto in un paesino di montagna e questo lo aveva indurito. Raccogliendo patate fin da piccolo, le mani rotte dalla terra, aveva imparato ad essere un duro, un uomo vero. Aveva costruito intorno a quell’anima fragile un’alta cinta di difesa da cui, sicuro della sicurezza acquisita, osservava le persone più deboli e più esposte di lui, quelle che non erano state capaci di un tale lavoro di protezione del proprio spazio interiore. Le osservava con un certo disprezzo, come ad accusarle di non aver compreso quanto sia difficile la vita nel tempo utile per correre ai ripari, per trovare un rimedio. Credendo la sua autodifesa una scelta ben ponderata, tenendo la propria natura nascosta, pretendeva dagli altri lo stesso scrificio di sensibilità e per questo motivo a volte feriva anche volontariamente, nell’altruistico tentativo di insegnare ai suoi simili quello che lui aveva imparato dalla terra, da quella terra che portava in grembo il nutrimento per la sua famiglia, ma donava il suo frutto d’amido al prezzo che lui ed il padre si spezzassero la schiena e si ferissero le mani. Come ogni uomo di paese che si rispetti riusciva a tracannare mezzo litro di birra in un sorso solo e quando cercava di moderarsi ci riusciva soltanto a patto di infilare tra un sorso e l’altro una intera sigaretta. Voleva smettere di fumare, voleva smettere di bere e ci aveva provato più volte, mi rivelò di volerci provare ancora, voleva chiudere con quella merda, ma io non gli credetti. E non perchè non lo volesse veramente, ma perché i suoi vizi erano troppi e sempre una misura avanti alla sua volontà. E quel male incurabile a trentatrè anni non migliorò la sua condizione già precaria. Lo conobbi in una sala d’aspetto di ospedale, in quell’aria nauseante di varichina e plastica bagnata, garanzia di igiene e soprattutto capace di coprire l’odore della morte, l’odore della paura, della disperazione e del pianto che sempre albergano in quelle corsie dai colori neutri. Se ne stava seduto con la carrozzina perfettamente allineata all’ultima sedia di plastica della fila accanto al muro, la sedia dov’ero seduto. “Pensa che fino ad un anno gli amici mi prendevano in giro perché quando ballavo ero estremamente scordinato! Pensa, queste stesse gambe se ne andavano da una parte e dell’altra a casaccio, come con vita prorpia, libere.” Mentre lo disse in uno sforzo quasi immane afferrò con entrambe le mani la gamba destra sopra il ginocchio e la sollevò di qualche centimetro solamente, quasi fosse stata la gamba di qualche altra persona o la gamba di una statua di piombo. La fece ricadere subito dopo. Io ero lì, come lui del resto, per fare delle analisi. Mi sentii inadeguato. Imbarazzato per un momento solo. “Andiamo” gli dissi. Mi alzai risoluto scivolai dietro alla sua carrozzina e lo spinsi lentamente lungo tutto il lungo corridoio che ci separava dalla porta scorrevole di entrata, una curva a detra ed una a sinistra, lentamente assaporando quel momento, lentamente chiedendomi perché stessi spingendo quella carrozzina e perché su quella carrozzina ci fosse seduto uno sconosciuto. Non trovai le risposte, ma l’aria fresca prese con sè quelle domande e le portò via. Descrivere il suo volto, il volto di quell’uomo nell’età di Cristo, poco più vecchio di me, ma anche più giovane, significa, lo capisco ora, descrivere una parte di me stesso. Significa raccontare ciò che avevamo in comune, ciò che ci avvicinava nonostante la grandissima distanza che separava le nostre vite fatte di mondi, persone e visioni differenti. Con una nota di scherno amorevole mi divertivo a chiamarlo barba, perché come me aveva una barba lunga ed incolta, molto più nera della mia. Portava i capelli lunghi, come i miei oggi. Devo forse confessare di averli fatti crescere nel tentativo di somigliarli, tentativo riuscito se non per gli occhiali che il barba non ha portato mai e la cui assenza gli permetteva quello che a me non è permesso e cioè di infilarsi le ciocche nere che gli cadevano sugli occhi dietro agli orecchi. Per miracolo quei capelli se ne stavano così, ordinati. La sua fronte era un mare in burrasca, la ricordo chiaramente. Alla sua età già si scorgevano le rughe della fatica, quelle del dubbio, quelle di colui che non ha trovato le risposte alle domande urgenti della vita e non avendole trovate semplicemente aveva un giorno deciso di serrarle in un baule e gettarle in mare aperto. Su quella fronte si portava adesso la preoccupazione che prima o poi qualcuno riportasse alla luce quel forziere di dubbi e questioni irrisolte.

...to be continued...

1 commento:

Paolo ha detto...

Interessante, mi acchiappa...

Paolo