lunedì 13 luglio 2009

Lunghi capelli e l'età del Cristo (Parte 2 di 3)

Appena fuori dall’ospedale infilò la mano ossuta nel taschino della camicia, diede un lieve colpo al pacchetto ed infilò tra le labbra uno di quei cilindri di carta pieni di tabacco, senza filtro. Lui non cercava di uccidersi e salvarsi al contempo, lui cercava un estremo, oppure quello opposto. Mi guardò silenzioso, quella prima volta, mentre aspirava la sua sigaretta e quello sguardo pieno, quello sguardo d’aquila ristabiliva l’equlibrio tra le nostre altezze differenti: mi guardava da seduto, dal basso verso l’alto, eppure quegli occhi erano gli occhi di un rapace, le orbite di un uomo che aveva visto il mondo dall’alto ed ora era ridisceso in terra per raccontare agli altri, per raccontare anche a me, ciò che non avrei potuto vedere. Quegli occhi erano il centro del suo viso e della sua persona, erano lo stelle fisse, erano chiaramente il tramite da lui scelto tra interno ed esterno, tra il proprio mondo interiore ed il mondo. Erano l’unica feritoia in quell’alta cinta muraria costruita intorno al suo cuore e da quella feritoia non guardava all’esterno con paura, ma proiettava un raggio di luce cosmica, un dardo che svelava, che metteva a nudo. La sua debolezza era forse quella di usare quel potere per il proprio compiacimento, invece che per aiutare gli altri a superarsi. Sotto a quella fronte in tempesta quegli occhi castani, comuni, erano il porto sicuro a cui il barba faceva attraccare secondo il proprio umore le anime delle persone con cui dialogava. Il mio spirito in quel porto sostò il tempo sufficiente per capire, dopo le prime esplorazioni all’interno, che non era quello il continente in cui volevo abitare. Non scriverei queste righe se non avessi preso la decisione di salpare verso altre terre. Dopo quel giorno ci incontrammo spesso, ci trovavamo quasi ogni sera davanti alla porta di entrata di quell’ospedale, passavo a prenderlo alla fine dell’ora giornaliera di fisioterapia che, non avendo una cura, gli avevano consigliato e ce ne andavamo un po’ in giro, all’aperto, in estate. Ci piaceva camminare, se così si può chiamare l’incedere sulle ruote di un uomo debole di gambe, per il centro della città, guardando divertiti le facce meste, gli sguardi bassi delle persone che incontravano questa strana coppia di uomini barbuti, osservando quella pietà fasulla che abbassava gli occhi fingendo una certa riverenza per un uomo sfortunato, ma che era più semplicemente un bisogno di guardare distante, lontano da un simbolo in carne ed ossa di sfortuna umana. Quando si faceva tardi, stanco lui degli sguardi ed io di spingere, entravamo in qualche bar non troppo frequentato. Davanti ad una birra mi raccontava poco a poco la sua vita passata, la sua vita precedente, quella in cui era scordinato e gli amici lo prendevano in giro. Si apriva, si raccontava, perché ero capace di guardarlo negli occhi, ero capace di sopportare il suo sguardo e non solo, ero capace di rispondere a quel dardo con naturalezza. Era questo il nostro patto, segreto e mai stabilito: eravamo differenti, ma quella barba e quei capelli e quello sguardo li avevamo in comune.

...to be continued...

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