martedì 14 luglio 2009

Lunghi capelli e l'età del Cristo (Parte 3 di 3)

“Un poeta, vorrei diventare” ripeteva a volte. Ed io che ero un poeta sapevo che non lo sarebbe mai diventato, che non si può diventare niente e che anche se avesse cercato di impugnare una penna, la poesia che pure vedeva nel mondo non sarebbe uscita in parole, in lettere, in rime anche malconcie. La sua poesia era destinata a rimanere negli occhi. Io da parte mia, essendo di qualche anno più piccolo, domandavo soltanto. Gli chiedevo questo e quello ed a volte nel bel mezzo di un discorso del tutto normale infilavo una domanda spregiudicata, volta a esplorare l’interno di quel mondo. Quelle volte si fermava silenzioso, sospeso nei propri pensieri, mi sembra di rivederlo, e stava in silenzio per un tempo lunghissimo, un tempo che avrebbe messo in imbarazzo chiunque se sottoposto a quei penetranti occhi inquisitori. Io rimanevo lì fermo, non distoglievo lo sguardo ed aspettavo. Le risposte il barba le aveva. Ma quel mio sostenere e ricambiare era anche un intrusione, era un voler sbirciare dentro la sua feritoia e quando non me lo voleva permettere scoppiava in una risata sonora, portando il busto e le spalle chiuse in avanti, quasi in una contorsione degli organi interni. Se decideva di rispondere invece si faceva serio e si esprimeva in modo cristallino e voce profonda, scandendo ogni sillaba. Poi prendeva il bicchiere nella mano destra e lo vuotava. L’ultima sera che lo vidi iniziò a parlare proprio dopo aver vuotato il bicchiere. Disse soltanto “Sono stanco, amico, di queste nostre camminate senza meta, di queste sere. Il mio passato l’ho perso, il futuro non lo vedo e per quanto riguarda il presente, di questo presente non so che fare.” Rimasi offeso, abbassai gli occhi. Mi sentivo ferito, come se fossi da quel momento anch’io un uomo come gli altri, di quelli uomini che non riusciva a guardare se non con superiorità. Poi guardai dentro di me. Anch’io mi sentii stanco, come se ciò che avremmo potuto dire da quel momento in avanti non sarebbe stato altro che un ricamo, un giro di parole nato dall’esigenza di riempire un vuoto. Come se la fonte da cui traevano spunto le mie domande, le mie incursioni in quel suo mondo fatto di bevute e falegnameria, di storie di paese con strani finali, fosse d’un tratto venuta a mancare, seccata al caldo sole di fine agosto. “Hai ragione, vecchia barba.” Il nostro era un addio. Mi alzai dal tavolaccio di legno grezzo e mossi alcuni passi fino al bancone del locale. Feci per pagare, ma il barista mi informò che il conto era stato saldato in anticipo, quella sera. Mentre lo diceva fece un impercettibile movimento del capo, sguardo basso, in direzione del mio compagno. Mi voltai verso di lui, sollevai un braccio e lui mi osservò immobile, come morto, tranne per quel fuoco negli occhi. Uscii e camminai nell’aria della sera, quasi mi pareva che fosse stato solo un peccato d’orgoglio di due uomini deboli, il nostro addio e decisi che il giorno dopo sarei tornato all’ospedale a prenderlo. Lui, davanti all’entrata del grande ospedale, non c’era. Entrai e mi informai se per caso quell’uomo in carrozzina non fosse già passato di lì o non avesse per caso ritardato di un poco negli esercizi di fisioterapia. “Sa una cosa?” iniziò l’infermiera “Ha chamato nel primo pomeriggio dicendo di essere miracolosamente guarito, dicendo di annullare tutti gli appuntamenti, dicenndo che d’ora in avanti solo la montagna sarebbe stata la sua cura...rideva di gusto...non so che dire.” “Nemmeno io.” le risposi. Nemmeno io ho la risposta.

The End.

Dedicato a Stefano, con l'augurio che nulla si avveri e presto ritorni a quei suoi balli sgangherati.

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