sabato 7 giugno 2008

Qualche giorno fa ho avuto occasione di guardare un film di 50 minuti sulla ascesa da parte dell'alpinista francese Jean Christophe Lafaille del Makalu, il "Grande Nero", 8473 metri di altezza, uno dei punti himalayani più vicini al cielo di questo pianeta. Nel tentativo di proteggersi dal vento che su quelle cime viaggia fino a 200km orari la telecamera attraversa il cuore da parte a parte, poco a poco la solitudine sfoglia li strati esterni dell'anima, ne elimina le imposizioni sociali, ne elimina le preoccupazioni legate all'apparire. E' solo una smorfia che si intravede sotto gli strati di tessuto che coprono il volto, un accenno di sorriso che esprime tutto il percorso e l'aspirazione di un uomo. Di un uomo scomparso tra i 7400 e gli 8400 metri di altitudine. Sulle quelle cime, dove il corpo fatica anche al minimo sforzo, sono gli strati leggeri dell'uomo che con facilità raggiungono la vetta, ed è questa separazione - tra un corpo che arranca ed uno spirito che corre - che, forse, sopraggiunge la morte.

Mi chiedo se, per una qualche sorta di giustizia divina, salendo su picchi così lontani dai comuni esseri umani, non vi sia la remota possibilità di ascendere direttamente al cielo, di trapassare questo universo fatto d'atomi e di elevarsi al di sopra delle cose. Del resto, cosa si può cercare, da soli, così in alto?

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