giovedì 2 ottobre 2008

Una delle idee più bislacche che ebbi in vita fu quella di cercare di convincere il mio cane, un husky dal manto lucido, al suicidio. Fu  un' operazione molto complessa, poiché il mio husky amava davvero la vita. Tuttavia non me la sentivo più di portarlo fuori a correre nei campi, avevo voglia di prendermi una lunga vacanza ed il canile non si addiceva al suo spirito libero. Non volevo darlo in pasto a qualche "amico dei quattrozampe", che lo avrebbe ridotto in un salotto. Così iniziai a spiegargli, durante la passeggiata delle sei, le teorie schopenaueriane del pessimismo cosmico. La sera uscivo in giardino per leggere ad alta voce una poesia del Leopardi, oppure qualche verso degli scapigliati. Gli piacque in particolar modo il "Canto notturno di un pastore errante dell'asia", si sentiva come quelle pecore, con una qualche consapevolezza in più. Poco a poco smise di mangiare, soprattutto perché mi ostinavo a rifilargli quei croccantini ricchi di tutte le vitamine e poveri di sapore: iniziò a vergognarsi per il suo alito mefitico. Per il suo settimo compleanno gli regalai "La nausea" di Sartre e così tutto per lui prese quella dimensione di orrida fisicità, di pesantezza, come se la natura fosse diventata una nemica invadente. Durante la passeggiata se ne stava con la testa bassa, abbaiava in modo spento, come un bofonchiare fiacco; preferiva di gran lunga stare a casa. Era davvero terribile vederlo in quello stato, mogio, senza voglia di vivere. Fortunatamente nessuno gli consigliò di leggere Nietzsche ed un giorno lo trovai in cucina, morto dissanguato. Non me ne ero accorto, ma da qualche mese camminava in modo accorto, tenendo le unghie ben lontane dal selciato e quelle iniziarono a crescere, fino a quando non furono lunghe abbastanza per permettergli di recidersi le vene della zampa. Una storia triste.

Poi partii per la Sardegna; due settimane di puro relax.
Approssimare per la prima volta nella vita i movimenti di una forma taoista, muoversi imitando l'eleganza dei maestri antichi e recenti lascia dentro la stessa sensazione che potrebbe provare un pianista novello improvvisamente invitato a suonare con i Bach, Rachmaninov, Beethoven di tutti i tempi. Questi movimenti non sono gli stessi, bensì l'evoluzione di altri provenienti da ere remote dell'umanità e celano, a chi li sa cogliere, aspetti profondissimi. Mentre che muove i suoi passi per la prima volta può solo balbettarli: tuttavia in questo balbettare si nasconde l'unica possibilità, un giorno, di fare della poesia in movimenti.

martedì 30 settembre 2008

Così il monaco Vetta-che-Ride scese a valle per incontrare suo fratello spirituale, Spirito-che-Gioca. Dopo averlo abbracciato ed aver ascoltato i suoi discorsi il monaco disse: "In verità, fratello mio, tu in futuro potresti essere il mio amico più caro ed allo stesso modo potresti diventare il mio miglior nemico." In seguito con un gesto elegante srotolò il mala dal braccio sinistro, abbassò il capo e lo mise al collo, poi giunse le mani e si chinò in segno di rispetto.
Tornando verso la montagna si interrogò a lungo come fosse possibile che un uomo di spirito corresse il rischio di mettere il Cuore a servizio dell'Ego e non al servizio del Bene. Giunto alla sua grotta si sedette in meditazione e lì pregò a lungo con fervore e compassione affinché gli Dei concedessero al fratello, in un futuro, il nome di Spirito-che-Gioca-sulle-Vette.

domenica 28 settembre 2008

Eravamo giovani, dopotutto. Eravamo quattro. Ricordo che quella volta bevemmo parecchio e verso mezzanotte eravamo ubriachi e contenti. E giovani. Non sapevamo come le nostre vite si sarebbero sviluppate, come ci saremmo separati a breve, ognuno per la sua strada differente, per ritrovarsi solo di tanto in tanto per una rimpatriata, cercando di scimmiottare i vecchi motivi che ci tenevano legati, quelle battute ormai datate che però facevano ancora sorridere. Nick era tra noi quello meno esperto nel bere, tanto che Jack organizzò una vera congiura contro di lui, e noi tre anche, comperando di nascosto una bottiglia di rum che gli mostrammo quando ormai era troppo brillo per rifiutare un altro bicchiere. La scolammo velocemente con equità, un quarto a testa. Stavamo seduti attorno al tavolo in legno massiccio di una baita di montagna ed io ancora non fumavo. Fumare, a quel tempo, faceva ancora male alla salute. Poi uscimmo senza una ragione precisa e nella notte stordita camminammo un poco a bordo della strada statale che passava ripida lì vicino, senza una vera ragione o meta ma con la sola idea di protrarre più a lungo possibile quelle ore senza pensieri e ricordi fumosi. Frankie ebbe quella che poi definimmo all'unanimità una "sbronza premurosa" poiché non faceva altro che continuare a ripeterci incessantemente di prestare attenzione e camminare al di fuori della linea bianca a bordostrada. Temeva che qualcuno di noi fosse investito da una qualche auto immaginaria che non sarebbe mai passata a quell'ora della notte, su quella sperduta strada statale di montagna. Noi per contro camminavamo al centro della carreggiata, con una soddisfazione sottile, come se stessimo riprendendo potere su un terreno dove, durante il giorno, era pericoloso avventurarsi. Forse cercavamo di infrangere qualche regola semplice, per sentirci liberi. Liberi di camminare al centro della carreggiata. Poi prendemmo un sentiero che saliva verso le piste da sci, dove l'erba estiva iniziava a inumidirsi nelle prime ore di un mattino di maggio. Ci sedemmo sul prato e in quel momento Nick ebbe un crollo emotivo. Come se quell'atto di rannicchiarsi a terra avesse fiaccato le sue difese interiori e l'alcool avesse strappato dal suo cuore emozioni che credeva di aver dimenticato: pianse ricordando un amore andato male, ricordando dentro di sè, silenziosamente, i particolari di quella donna fresca e dagli occhi vispi ed azzurri che lo aveva preso, innamorato ed abbandonato nel giro di pochi giorni.  Lui amava innamorarsi e quindi si era gettato su quegli occhi con la forza e lo slancio di un parigino disperso sulle Prealpi. Tentai di consolarlo, ma sapevo che una buona dormita avrebbe fatto più di tutte le parole che la mia bocca, impastata e disarticolata,  potesse in quel momento pronunciare. Gli strinsi un braccio attorno alle spalle. Dopo poco tornammo tutti assieme dentro casa ed il letto ci aiutò a dimenticare le nostre risa e sostituì alla sensazione di leggerezza un pesante mal di testa mattutino. Nella notte Nick, che dormiva accanto a me, si alzò più volte per andare a vomitare. Era debole di stomaco e vomitava spesso in primavera e spesso anche quando si innamorava e spesso e soprattutto quando beveva. Tra noi era quello meno esperto nel bere, ma mentre piangeva, quella notte sulle pendici del Bondone, gli volemmo tutti un gran bene.
Di tutte le umane paure, la xenofobia è il cancro peggiore. E Diverso significa Altro in tutte le sue forme, non solo in quelle consuete a cui questa parola fa riferimento. L'esistenza dell'Altro ci terrorizza, ci spaventa, mette in discussione le nostre scelte, il nostro modo di vedere: se non è ben saldo il nostro Io vacilla, si sente minacciato, si sente violentato e rivendica ancora una volta il suo diritto alla vita. Così la xenofobia genera rabbia e guerra e dolore e voglia di prevalere sull'altro, di imporsi, di spostare nuovamente il  baricentro del mondo su se stessi: siamo egocentrici. E se tutti voi lettori la penserete in modo differente e non sarete in accordo, mi auguro almeno che non diate vita a queste stesse parole definendo un giudizio di valore per questo mio pensiero, per questa mia verità chiara, che mi angoscia perché diffusa a tutti i livelli.

Emanciparsi dalla Paura del Diverso dovrebbe essere un compito primario nella vita di ogni essere, poiché in questo modo ogni uomo o donna potrebbe semplicemente essere se stesso senza temere che gli altri seguano la propria differente via. E so bene, credetemi, che in quel "dovrebbe" pretendo di imporre la mia visione sulle tutte altre; anche se, a mia discolpa, posso dire di aver lavorato per anni su questi temi e quindi di conoscerli abbastanza approfonditamente.

giovedì 25 settembre 2008

Carta da musica

Sfioro con le dita
i mezzitoni del tuo cuore,
suono l'allegro del tuo corpo,
carta da musica.

Lungo le venature dei fianchi
intaglio liscio il legno delle viole,
di archi s'inarca la schiena
si flette come nudo e pallido crine.

La pelle è uno spartito muto
di sensazioni in legati ascendenti,
come cieco ne esploro le ottave
e indugio su armoniche di piacere.

Nel tuo morbido ventre,
nella minuta tastiera dell'inguine
compongo e scompongo versi giocosi
calcando i bianconeri del piano.

Vorrei dirigere, orchestra di vita
i tuoi sussurri di soprano
e dimentico concludere
in una euforia, sudata di applausi.
"E' difficile a dirsi" disse Nick Adams. Potevi forse dire che lei fece per prima ciò che nessuna ha mai fatto meglio? E parlare della gambotte brune, del ventre piatto, dei piccoli seni duri, delle braccia accoglienti, della lingua curiosa e saettante, dello sguardo appannato, del buon sapore della bocca, finché scomodamente, strettamente, dolcemente, umidamente, amorosamente, strettamente, dolorosamente, pienamente, finalmente, infinitamente, interminabilmente, illimitatamente, improvvisamente tutto finiva, e il grande uccello volava via come una civetta al crepuscolo, solo che nel bosco c'era ancora la luce del giorno e gli aghi di pino ti si appiccicavano al ventre.

- Enerst Hemingway, traduzione di Vincenzo Mantovani -

mercoledì 24 settembre 2008

Sulla corriera per Mocimboa
viaggio verso la libertà.
Le mani si schiudono in doni 
un pugno di conchiglie
e l'anima del mare.

Tra i finestrini rotti
sguaiati gracidii umani
io sempre ricerco
senza sosta
con fatica estrema
e stanchezza
la libertà.

Lontano da tutto,
un pugno di conchiglie
e l'anima del mare,
s'increspano i miei tratti
e piango d'un pianto silenzioso,
inosservato e commosso.

martedì 23 settembre 2008

Nick Adams era seduto in treno verso casa: stranamente un treno lussoso. Aveva sete. Fuori i campi di granoturco intervallavano a singhiozzo le fabbriche dell'Interland milanese. Aveva sonno; bere il pomeriggio non è mai una buona idea, soprattutto se ti attendono le rotaie e l'attesa e tutto il tempo per sciogliere l'euforia d'una festa in un bicchiere di monotonia. Si addormentò per qualche minuto, fino a quando l'addetto alle bibite non urtò con il carrello delle bevande il suo ginocchio destro che nel sonno aveva preso troppo spazio sul corridoio centrale. Quell'invasione di campo era sgradita ed il carrello delle bevande aveva pensato da sé ad impartire una lezione alla sua gamba invadente. Di fronte un uomo di circa settant'anni compilava in modo meticoloso una piccola agendina con una penna stilografica ad inchiostro nero, la cui punta molto larga lasciava sulle pagine delle spesse striscie di china che ad ogni curva diventavano più sottili, per allargarsi di nuovo come nastri attorcigliati verso altre lettere, verso altre frasi. Evidenziava le note importanti con un pennarello rosso, perché, come aveva detto a Nick, tutto fosse in ordine e meticolosamente definito. Non sapeva che stava per morire e nemmeno Nick lo sapeva. Sentirono solamente uno stridere di ferraglia e come un suono di diecimila gessetti su altrettante lavagne che tutti assieme gridavano di un dolore rauco. Quell'urlo lancinante di rotaie ferite sulla curva secca del ponte sul Mincio, vicino a Peschiera, era tutto il vano sforzo del vagone di mantenersi in velocità sulla strada ferrata, di non lasciarsi sedurre e portare lontano dalla forza centrifuga che a tutti i costi cercava di tuffare il treno nel fiume sottostante. Poi solo silenzio e quella sensazione di rimescolio delle budella che in un primo, brevissimo e sciocco secondo Nick aveva ricondotto a quel Long Island di troppo, bevuto in compagnia a Milano poche ore prima. Prima del tonfo sordo l'uomo sulla settantina di fronte a lui richiuse l'agenda e le scritte eleganti di china nera e le note rosse scomparvero per sempre, come protette da quell'ultimo istintivo gesto di difesa. Con i suoi settant'anni, andava a Venezia a trovare una fidanzata fresca di qualche mese; una storia allegra. Ma non erano ancora intimi al punto da poter mostrare l'un l'altro i propri sentimenti e, quando morì, Nick questo ancora non lo sapeva.
Disteso e tranquillo
semplicemente comprendo
l'amore smisurato 
che eternamente provo
per me stesso.

Il mio corpo perfetto,
questa stanza sporca
nel fruscio delle foglie di banano;
l'incidere parole di pietra
nella danza elegante d'una penna.

E piano cresce la nostalgia
e germoglia un' idea di morte
e attaccamento e dolore e passione
e pianto sconvolto.

Davvero un giorno
lascerò tutto questo?