giovedì 31 dicembre 2009
mercoledì 30 dicembre 2009
venerdì 25 dicembre 2009
giovedì 24 dicembre 2009
martedì 22 dicembre 2009
domenica 20 dicembre 2009
mercoledì 16 dicembre 2009
Isola di sogni perduti
Lievi increspature degli occhi
Vorrei cingerti come l’oceano
lunedì 14 dicembre 2009
giovedì 10 dicembre 2009
lunedì 7 dicembre 2009
mercoledì 2 dicembre 2009
lunedì 30 novembre 2009
sabato 28 novembre 2009
venerdì 27 novembre 2009
mercoledì 25 novembre 2009
domenica 22 novembre 2009
sabato 21 novembre 2009
venerdì 20 novembre 2009
giovedì 19 novembre 2009
domenica 15 novembre 2009
venerdì 13 novembre 2009
martedì 10 novembre 2009
lunedì 2 novembre 2009
sabato 31 ottobre 2009
venerdì 30 ottobre 2009
giovedì 29 ottobre 2009
domenica 25 ottobre 2009
martedì 20 ottobre 2009
lunedì 19 ottobre 2009
martedì 13 ottobre 2009
lunedì 12 ottobre 2009
giovedì 8 ottobre 2009
sabato 3 ottobre 2009
giovedì 1 ottobre 2009
martedì 29 settembre 2009
venerdì 25 settembre 2009
giovedì 24 settembre 2009
mercoledì 23 settembre 2009
sabato 19 settembre 2009
Il rombo della cascata Nardis
Il tempo perfetto è concluso. Il tempo perfetto è scivolato giù dall’alto della montagna lungo il ripido pendio di roccia bagnata, caduto, fratturato in infinite microscopiche gocciole d’acqua, in infiniti istanti perfetti, per poi riunirsi in basso, per confluire nuovamente verso l’unica grande direzione. Poiché la legge è una solamente: verso l’oceano. L’unica realtà davvero fondamentale, davvero importante ed al di sopra della nostra stessa comprensione, è la Pratica. Quando essa accade, si realizza, ecco che l’orologio del tempo si ferma ed inizia lo scorrere dell’enorme clessidra di acqua dal rombo di tuono, inizia lo scorrere della cascata. Per questo il come non è importante. Per questo qualsiasi tempo passato vivendo la Pratica e calandosi in essa è il tempo perfetto, poiché il percorso è a noi del tutto sconosciuto e nessun giudizio ha davvero significato, mentre procedere è tutto; porre un piede avanti all’altro lungo lo stretto percorso segnato come la terra ed il cielo entro cui ci muoviamo, quel percorso tra le rocce ed i flutti che segna il confine della nostra Possibilità. Inebriato da questo pensiero riemergo dalla notte alla fine della pratica, le mie braccia cercano la strada al di fuori della mantella bagnata e di fronte al grande mistero della natura giungo le mani e le incrocio al petto: ascolto il mio cuore, ritorno per un istante dove la speranza, la compassione ed il desiderio trovano il loro fisico rifugio e così prego per i maestri, per i compagni, per le persone a me care e per me stesso. Perché, pur nell’incomprensibile gioco della manifestazione, questo tentativo non vada sprecato, perché possa un giorno davvero realizzarsi il principio di luce, pace ed amore che permea i sentieri nascosti dell’Uomo.
Per l’ora e mezza precedente la cascata mi ha avvolto, al di fuori ben poco ha catturato il mio pensiero, solo la sua forza, il suo fragoroso cadere, il contatto tra noi vissuto attraverso quelle minuscole gocce di nebbia che a raffiche forti e deboli si posavano sul mio volto. Sentivo gli occhi gelidi, come vi fosse sulla linea tra le palpebre un minuscolo strato di ghiaccio; sentivo la gola freddarsi ed inumidirsi e più volte ho dovuto lasciare il sigillo delle mani per coprirla. La grande mantella in cui mi sono avvolto era il confine tra l’ambiente esterno freddo ed ostile e quello interno caldo ed accogliente. Dentro vi era un tepore confortevole ed amico, mentre fuori l’umidità conquistava terreno, prendendo un ginocchio scoperto, assaltando il volto e la gola. Silenzio ed osservazione, solamente le reazioni minime per non compromettere il mio stato di salute. Sentivo i pensieri roteare e turbinare nell’acqua, poi quando il vento calava, ecco che nasceva un momento di silenzio: dov’erano andati i rumori? Dov’era la cascata? Silenzio, discendi, attendi, osserva, abbandona le parole, osserva solamente... ... ... ... ed ecco una nuova raffica di vento, acqua e pensieri. D’un tratto apro gli occhi, per una volta soltanto e la guardo. Lì di fronte a me, nella sua enormità e nella mia piccolezza, in quel diafano contrasto con la notte nera delle pendici della montagna. Poi mi accorgo che i miei stati di coscienza iniziano a riaffiorare alla dimensione del reale, richiudo gli occhi e ritorno dentro me stesso.
venerdì 18 settembre 2009
mercoledì 16 settembre 2009
lunedì 14 settembre 2009
domenica 6 settembre 2009
Il monastero di Reting
Alcuni anni fa, prima ancora di intraprendere il grande viaggio attraverso i mondi, mi trovavo sul fine dell’inverno nel Tibet occidentale. La terra era ancora fredda ed indurita dall’inverno appena passato, lo spoglio paesaggio tibetano riempiva il mio orizzonte con le sue linee semplici e dolci. Camminavo, parte di una breve colonna di pellegrini, per l’ampia vallata senza nome dove in una lontananza che ancora non potevo scorgere, si ergeva il monastero di Reting. La vastità fredda dello spazio semidesertico che mi circondava rappresentava il luogo della dissoluzione dei miei pensieri di uomo, come se tutto l’inutile non potesse incamminarsi lungo quella pista segnata dai passaggi nella terra dura, come se la mia personalità, ciò che ero, non avesse avuto al fine il coraggio bastante per seguirmi in quel viaggio lungo e faticoso, fatto di privazione, di cavolo bollito ad ogni pasto e di passi lenti calibrati sulla presenza rarefatta dell’ossigeno. A quattromila metri quel che rimaneva di me stesso erano solamente gli strati più leggeri della mia persona, mentre il corpo ed i pensieri di ieri erano dietro, abbandonati in qualche bivacco nella luce del primo mattino. Lungo il cammino la nostra lunga carovana di uomini e bestie lentamente si insinuava nella grande vallata, tra i suoi uccelli scuri dalle grandi ali che volteggiavano nel cielo, tra gli yak mansueti che pascolavano alla ricerca d’ogni stelo verde. Ricordo che per un istante mi fermai ad osservare una di queste vacche tibetane, la quale di rimando mi scrutava con una certa curiosità ed in una posizione estremamente femminile. Portava infatti alle orecchie, come gli altri capi della mandria, due nappe rosse che pendevano come eleganti orecchini. Nella posizione frontale, eretta ed elegante, teneva le zampe anteriori vagamente incrociate, come accavallate nel sensuale capriccio di nascondere la propria intimità. Lentamente estrassi dalla borsa la macchina fotografica e mossi con cautela la ghiera prima di scattare; quella si accorse del mio tentativo di imprigionare per sempre la sua bellezza in un ricordo di pellicola e quindi ruotò il capo in direzione opposta, lontano da me, guardando verso il centro della valle dove il resto della mandria sostava. Ripresi il cammino in silenzio.
Davanti a me, dopo circa un’ora, scorsi sulla pendice sinistra della valle una foresta, che si estendeva per un area circoscritta, inerpicandosi su per un pendio. La mia emozione fu grande quando vi penetrammo, il monastero di Reting era vicino e la sacralità del luogo era percepibile nel silenzio di quel bosco di ginepri. Gli alberi nelle loro forme contorte, nelle curve dolci, attorcigliate su sé stesse, svettavano al fine verso il cielo, come centinaia di campanili, come preghiere bisbigliate dalle frasche nel vento. A terra avvolte nelle radici o appoggiate ai tronchi, giacevano enormi massi scuri, maestosi, immobili come la terra, pazienti guardiani dei pellegrini che ormai vicini alla meta gettavano lo sguardo in avanti, alla ricerca del bianco e del rosso, le tinte sgargianti di cui sono dipinte le mura dei templi. Ciò che vi era di profondamente attraente in quelle piante secolari era il messaggio che portavano e che in quel momento non seppi decifrare. Come tutto l’altopiano, come le bestie e come gli uomini, anche quelle piante avevano a lungo combattuto contro l’ostilità dell’ambiente, avevano lottato per raggiungere il cielo e la luce ed infine solo alcune di loro erano sopravvissute, lasciando ampie radure tra una pianta e l’altra. In quel luogo, ormai prossimo al monastero, percepivo in qualche modo la presenza di un mondo oltre quello della materia, oltre a quello delle vane emozioni mondane, oltre ai contorti pensieri di chi vive più in basso: nell’aria, nei ginepri, nei massi e soprattutto nello spazio vuoto riempito solo a momenti dal rumore dei corvi potevo chiaramente percepire una la differenza, la presenza di una verità più profonda e meno labile, quasi eterna forse, in accordo con quel monastero senza tempo. Il mio sorriso ed il mio stupore si fermarono sul verde brillante delle frasche sparute nella luce del tardo pomeriggio, poi giungemmo alla porta ed al bianco muro esterno che segnava il perimetro del monastero di Reting. Eravamo giunti alla meta.
I monaci di Reting ci accolsero come i Tibet è usanza: entrammo in una sala interna con un tetto basso, colonne intarsiate di legno dipinte di colori intensi. Ci sedemmo su una polverosa stratificazione di tappeti di epoche e stili differenti, che perimetravano un basso tavolo in legno massiccio. Offrirono ai pochi membri della nostra carovana bicchiere di tè al burro dolce, che bevemmo con gioia, ben accolto dal nostro stomaco squassato dalla cattiva cucina dei giorni precedenti e dal freddo. In quelle stanze, in quei sorrisi di monaci la cui lingua non potevo comprendere, viveva un grande ed affascinante mistero, come se il mondo cercasse di comunicarmi una qualche evidenza della vita che non era però ancora chiara ai miei occhi, decrittabile e traducibile in pensiero cosciente. Ricordo che, salendo per una scalinata esterna, incontrai un monaco giovane alto ed elegante, avvolto nella propria mantella rosso porpora. Giunto vicino a me si fermò e per un istante ci guardammo negli occhi. Poi da dietro alla sua schiena sbucò in basso una testa lucida, un paio d’orecchie ed uno sguardo curioso, un bimbo sui dodici anni il cui corpo però ancora si confondeva nella sovrapposizione di rossi delle tuniche di diversa grandezza ma dello stesso colore che i due indossavano. Sorrisi loro senza dire nulla. Il bimbo emerse completamente dalla più grande figura del suo compagno e mi prese per mano. Qualsiasi gesto convenzionale, qualsiasi stretta o saluto mi parvero in quel momento superflui e senza significato e preferii lasciarmi trasportare in silenzio in alto verso una porta, poi attraverso la stessa ed altre stanze alcune sgombre e pulite, altre gremite di oggetti di culto, statue, oggetti per i rituali in disuso. Infine raggiungemmo una stanza ampia, ove al centro erano seduti quattro monaci anziani. La scena era illuminata dalla luce fioca di altrettante candele al burro di yak, le cui fiamme si ergevano come immobili e senza fluttuare nell’aria, forse per l’assenza di correnti d’aria, forse in accordo con la quiete che regnava in quel luogo. I quattro monaci anziani sicuramente notarono la nostra presenza ma nessuno di essi interruppe il lavoro cui erano dediti. Non erano immobili, ma muovevano impercettibilmente la schiena avanti ed indietro. I loro occhi erano semichiusi e le loro labbra si increspavano di tanto in tanto svelando l’emissione di un qualche suono impercettibile e ripetuto durante il minuzioso lavoro delle mani. Riuniti intorno allo spazio vuoto innanzi a loro quei monaci avevano da poco definito le linee principali di un nuovo Mandala, tirando alcuni sottilissimi fili di lino da una parte all’altra dello spazio accuratamente scelto per quell’indicibile effimera opera d’arte. Così ora, lentamente e con gesti essenziali si apprestavano a disegnare le prime geometriche linee del complesso disegno ed in questo io li osservavo nel modo in cui avrei potuto osservare con gli occhi il momento della creazione del cosmo, come se il Demiurgo si fosse manifestato attraverso quei quattro corpi e le prime leggi dell’universo intero venissero in quel momento stabilite, ormai immutabili fino alla distruzione di tutto l’esistente ed al prossimo inizio. Quegli uomini in quel momento muovevano le mani con la sapienza e la conoscenza di un dio. Il suono che pronunciavano era l’eco, la vibrazione armonica in cui era immersa la creazione stessa, lo stesso suono muto bisbigliato dalle fronde dei ginepri nel tardo pomeriggio, qualche ora prima. Stetti, immobile in osservazione, assistendo ad un miracolo, ad una metafora concreta che andava oltre ogni mia possibilità, ogni mia aspettativa; una metafora che nemmeno ora alla luce di ciò che ho realizzato è svelata, ma è anzi pregna di un mistero sempre più profondo ed inesplicabile, come se la soluzione si facesse più chiara, ma in questa chiarezza perdesse la possibilità di essere espressa con parole umane. Forse perché quello stesso enigma fatto di creazione, preghiera e distruzione non apparteneva alle cose umane, ma si elevava al di sopra della penombra di quel soffitto a cassettoni affrescato, al di sopra dei tetti piatti del monastero; su in alto, oltre le cime dei ginepri, al di là della volta del cielo, ove lo sguardo dell’uomo giunge solamente quand’egli impara a chiudere gli occhi.
venerdì 4 settembre 2009
mercoledì 2 settembre 2009
martedì 1 settembre 2009
lunedì 31 agosto 2009
giovedì 27 agosto 2009
mercoledì 26 agosto 2009
martedì 25 agosto 2009
giovedì 20 agosto 2009
E sapete perche´scrivo di questo? Perche´qualche istante fa avevo iniziato un post sull' interessante impianto portoghese di Maputo, dove sono, sul paradosso riguardante il fatto che cio´che di bello c'e´in una citta´come questa e´merito di chi ha sottomesso e schiavizzato...e tuttavia ecco, non riuscivo a concentrarmi a causa delle mie urgenze intestinali.
Un moto di sincerita´, in poche parole.
lunedì 17 agosto 2009
domenica 16 agosto 2009
sabato 15 agosto 2009
Vi confesso che, quando alle cinque e trenta di mattina assonnato esce dalla tenda per andare a lavarsi i denti, non e´che il cittadino italiano medio si aspetti di vedere una madre con piccolo, due massicci pachidermi grigi, scorrazzarli davanti a due metri di distanza. Quindi insomma, ho fatto tutto al peggio: mi sono voltato e spaventato sono corso alla tenda, con agitazione ho cercato di aprire la cerniera senza riuscirci e mi son detto "che coglione". Poi mi sono voltato a vedere quello che succedeva. Per fortuna madre e piccolo non erano interessati ai miei stupidi comportamenti da bianco inesperto. Bellissimo.
Il South Luangwa sono stati due giorni di emozioni spudorate, di stupore, di sorpresa. Il ruggito del leone mentre divora la cena, mentre strappa a morsi le interiora di un puku, nella notte, con le iene che ti guardano da dietro la macchina, in attesa della loro parte. L'eleganza della giraffa, la sua slanciata e femminile bellezza a chiazze.
Forse forse, tra qualche giorno, le foto. Spudorata bellezza di natura.
domenica 9 agosto 2009
C'e` una leonessa di nome Bella, tornata da cinque mesi dalla Romania, dove se ne stava in uno zoo. Bella e` parecchio bruttina, soprattutto perche` guercia da un occhio. Se ne sta appisolata tra gli alberi, la nostra guida tira una pietra al di la` della rete per svegliarla, ma Bella non fa una piega. E` un gattone. Dorme e forse farebbe le fusa. Sogna il numero dei cerchi infuocati al circo itinerante rumeno.
Poi c'e` un leopardo con il ginocchio rotto, che non puo` correre, ferito sul Nykya Plateau e portato qui. Due condor con le ali spezzate che possono permettersi voli di massimo qualche metro, da terra al primo ramo dell'albero cresciuto nella grande voliera che li ospita. C'e` un coccodrillo maschio di quattordici anni che non sara` mai rilasciato in natura perche` l'unica cosa che sa mangiare e` il pollo e non sa ucciderlo, devono accopparlo prima senno` non lo mangia. A lui la carne viva gli fa ribrezzo, e` un coccodrillo di citta`, dopotutto.
Le scimmie ed i babbuini sono invece stati riportati da Israele con un programma di reinserimento di animali esportati all'esterno abusivamente. I babbuini sono stati tutti castrati perche` si teme che diffondano, accoppiandosi, malattie contratte oltre il mar rosso. Quattordici babbuini eunuchi....un'immagine esotica.
Gabriel infine, la nostra guida, fa questo lavoro gratuitamente, nella speranza che prima o poi o molto poi lo assumano e gli paghino uno straccio di stipendio. Ha studiato giornalismo a Blantyre...non ci chiede la mancia e gli offriamo una fanta passion fruit come ricompensa.
sabato 8 agosto 2009
giovedì 6 agosto 2009
Domani le fotografie di queste ultime settimane.
domenica 2 agosto 2009
Si spostano, questi uomini donne e bambini, per tutto il grande lago Malawi, alla ricerca di cibo, commercio e denaro. Sono centinaia, poverissimi, eppure migranti, come uno scuro sciame d'api in volo nella scura notte africana.
Poi, alle cinque del mattino mi sveglio e il sole sorge rapido, esce dall'acqua con quel suo colore rosso smorto e i primi raggi freddi. Inizia la giornata e dopo poche ore l'Ilala attracca a Nkhata Bay. Terra ferma.
lunedì 27 luglio 2009
Nao faz mal. C'e' molto ed altro da vivere.